Fratelli della costa – Sapere e felicità

Alessandro: Sapere e felicità, come possiamo definirli?

Alfredo: Il sapere può essere sinonimo di conoscenza, che è divisibile in due campi: quella data dall’esperienza, che ho dalla famiglia, quello che ti serve per vivere in una società; poi c’è il sapere in senso ampio, cioè la conoscenza dell’ordinamento del mondo, della storia, della cultura e della speculazione filosofica.

Quanto alla felicità ci sarebbe da scrivere un libro perché in migliaia di anni ne sono state date tantissime, anche molto diverse fra loro: per gli antichi greci o romani era data da uno stile di vita tranquillo e la liberazione dalle paure (atarassia), l’epicureismo e lo stoicismo soprattutto si sono occupati di felicità; per gli orientali è il distacco dalle passioni, che sono viste come negative, insomma il cosiddetto “nirvana”; per i contemporanei in genere felicità è benessere psichico in generale, però non si arriva a una definizione univoca che metta d’accordo tutti.

Ale: C’è un legame fra questi due concetti?

Alf: Prendiamo quel magazzino di sapienza che sono i miti: Adamo ed Eva possono restare nel Paradiso Terrestre a patto che non si cibino dall’albero della conoscenza, quando lo fanno (perché non possono non farlo dal momento che è nella natura umana disubbidire) perdono il Paradiso Terrestre e sono condannati a vergogna e dolore e sudore della fronte. Oppure prendiamo Prometeo, che significa “colui che guarda avanti” (il primo progressista della storia, per dirla con Marx): egli ruba il fuoco agli Dei, però è condannato ad aver mangiato il fegato, e ovviamente anche lui non può non farlo perché l’uomo è destinato, per dirla con Dante, “a non viver come bruto ma a seguir virtute e canoscenza”, però poi si rode il fegato

Ale: C’è quindi contrappasso dantesco

Alf: Sì certo

Ale: Quindi, quale relazione si instaura nel mito fra felicità e sapere?

Alf: I personaggi sono sempre narrati come felici, però poi perdono la felicità per avere la conoscenza, che però li allontana dalla felicità, anche perché è vista come sfida agli dei.

Ale: Il sapere porta all’infelicità?

Alf: Certamente sì, perché mettiamo di vivere in una società preglobalizzata, non sapere nulla delle catastrofi che avvengono nel mondo; oggi grazie a tecnologia abbiamo molto più sapere ma veniamo a sapere della sorte miserabile di chi sta peggio di noi, e questo, se non siamo cuori di pietra, un minimo di infelicità deve portarcelo, poi non ho mai conosciuto un matto o un nevrotico che fosse una persona mediocre: le persone con gravi disturbi psichici o sono ritardati o sono intelligenti e i nevrotici sono spesso molto intelligenti. Non vale per me il contrario, ovvero che le persone stupide siano necessariamente felici o che le persone intelligenti non siano mai felici, forse era vero ai tempi di Leopardi, quando il villano viveva senza problemi e il ricco signore, che non doveva procurarsi da vivere, si poneva problemi psicologici. Oggi che è difficile arrivare alla fine del mese per quasi chiunque e la depressione è presente in ogni ceto sociale.

Ale: Verrebbe da dire che il legame fra sapere e infelicità sia la sensibilità

Alf: Certamente: l’antico, quando parlava di conoscenza, parlava più di speculazione filosofica che di nozionismo e questo era riservato a pochi: oggi sappiamo che esistono varie forma di conoscenza fra cui non dobbiamo sottovalutare l’empatia o la mentalizzazione, cioè la capacità di comprendere i sentimenti propri e altrui. In questo senso conoscenza è soprattutto sensibilità, oppure da un punto di vista più nozionistico conoscere più paesi, linguaggi o opere porta comunque a una maggiore possibilità di immedesimarsi con l’altro, dunque più sensibilità ed empatia. Anche chi non ha cultura ha capacità di empatia, ma gli è più difficile esprimerlo o ha meno occasioni per farlo.

Ale: Ma allora è felice solo chi è superficiale?

Alf: Assolutamente no: i comportamenti umani non sono qualcosa di simmetrico, per cui valga automaticamente anche un contrario: una persona superficiale può essere infelice per motivi superficiali che però per lui contano enormemente. Un bell’esempio può essere quello di un professore che raccontava di essere stato in classe con uno sportivo, fidanzato con una star della tv; un giorno lo ha incontrato ed era il ritratto dell’infelicità, a domanda su cosa lo buttasse giù gli ha risposto: “C’erano i mondiali: sono arrivato secondo”, mentre lui lo riteneva colui che aveva tutto nella vita, mentre in quell’istante aveva di fronte un uomo infelice; insomma: tutto è relativo.

Ale: Considerando il sapere come fonte di libertà, viene da chiedersi se felicità e libertà siano contrapposte

Alf: Nelle antiutopie disegnate da Orwell e Huxley i personaggi sono praticamente dei robot che sono felici in quanto schiavi e poi c’è l’eroe che è infelice perché vuole in più la libertà e si ribella; però nella società ipermoderna (dove, come dice Gaber, “la libertà è obbligatoria”) è questa mancanza di limiti a produrre disagio psichico. Da un punto di vista strettamente etimologico desiderare vuol dire “sentire la mancanza delle stelle” che è la condizione dell’uomo prigioniero, per cui si può essere infelici per mancanza di libertà o per troppa libertà, qui la risposta è individuale e dipende dalle caratteristiche personali prima che da quelle sociali, questo è il motivo per cui le ideologie sono fallite.

Ale: Soprattutto al giorno d’oggi, il sapere è considerato fonte di noia, è davvero così?

Alf: Nel mondo antico, e anche per Leopardi, la condizione della noia (o come dicevano i latini tedium vitae) era data più che altro da una mancanza di senso, che se vogliamo è tipica della persona più colta, che si lascia meno abbindolare da falsi miti o, per chi ci crede, è arido e disincantato. Oggi questa condizione di mancanza di senso, di noia come stile di vita è più tipico delle persone che hanno disturbi della personalità; avere un buco dentro di sé, che un grande psicanalista come Green chiama “angoscia bianca”: queste persone sono poco sensibili, incapaci di mentalizzazione, di pochi interessi, spesso violente, quindi questo tipo di infelicità come noia lo vediamo di più in queste persone, mentre in tutti gli altri casi abbiamo casi di depressione più o meno lieve o di malinconia

Ale: Quindi si potrebbe giungere al paradosso per cui siamo infelici perchè cerchiamo di trovare un senso mediante il sapere, ma una volta giunti a questo siamo infelici poiché siamo consapevoli

Alf: Più vivo, più conosco, più so, mi viene il sospetto che tutte le grandi idee siano dei clamorosi autogol: per esempio un filosofo spagnolo, Juan Antonio Marina, in un libro che si intitola “Il fallimento dell’intelligenza” afferma che libertà di parola è il miglior alleato dei fascisti, perché se c’è libertà di parola possono parlare anche loro, sennò potrebbero dire “voi siete i veri fascisti perché non ci lasciate parlare”. Ritengo riguardi tutte le grandi conquiste dell’umanità, vado sempre di più verso un pessimismo cosmico.

Ale: Una nota di ottimismo non potrebbe venire dal fatto che la felicità non sta nel senso o nel sapere, quanto nella ricerca dei medesimi?

Alf: È un tema classico della sapienza tradizionale: “la via che si può percorrere non è quella eterna”, il viaggio facile non è quello giusto, si potrebbe dire “caminante, no hay camino hay que caminar”. Jaspers diceva: “Solo quando un uomo conquista una tale coscienza ci sembra che apra gli occhi sul mondo, nasce in lui quell’inquietudine che lo spingerà innanzi…nessuna situazione per lui può essere stabile poiché niente lo appaga”.

* fratelli della costa: la rubrica Corsara di Alessandro Sbarile e Alfredo Sgarlato