Savona: sabato inaugura mostra di icone dal XVII al XX secolo

Sabato 9 ottobre alle ore 11,30 si aprirà una preziosa e particolare mostra di icone dal XVII al XX secolo a cura di Renzo Mantero, che rimarrà aperta fino al 21 novembre 2010. La mostra si intitola “La Gran Madre delle Tre Mani”, e riguarda una serie di specifiche icone che il Prof. Mantero ha collezionato e raccolto in questi anni. L’esposizione, allestita con cura dagli uffici della Pinacoteca Civica è nata nell’ambito del Convegno di Chirurgia della Mano, prestigioso appuntamento voluto dallo stesso Mantero e dal Prof. Igor Rossello che si è tenuto nei giorni scorsi e ha di fatto inaugurato il nuovissimo Centro Congressi nella sala retaurata e riallesstita della Sibilla al Priamar.

È anche la 6° giornata del Contemporaneo e quindi la Pinacoteca sarà aperta gratuitamente tutta la giornata in modo da offrire al pubblico sia la visita alle icone sia la visita alle opere contemporanee (Collezione della Fondazione Milena Milani e della Fondazione A.De Mari). È anche l’occasione per segnalare l’apertura della mostra di Bruno Gorgone “Giardino Mentale”.

Note sulla Gran Madre delle tre mani a cura del Prof. Renzo Mantero – La Gran Madre delle tre mani, è un’icona, storicamente legata alla vicenda dell’iconoclastia, che ha assunto un valore quasi commemorativo della vita dello strenuo difensore delle immagini Giovanni Damasceno.

Icona, dal greco eikon e dal bizantino eikona, significa immagine, quella che sostituisce la presenza della persona: “immagine visibile dell’invisibile”.

Fino dalla preistoria, l’uomo ha cercato di stabilire un rapporto con la Divinità con le immagini più diverse, spesso riguardanti l’universo siderale e tutti i regni della natura, per trovare riferimenti sempre più antropomorfi o antropo-zoomorfi, quelli che compaiono nelle culture più vicine nel tempo, da quella egizia, alla greca, alla romana.

Nei romani, in epoca pre-cristiana, il Divus Imperator era un’immagine sacra, un’icona, e questo modello è stato ripreso dai cristiani della catacombe con i simboli del Buon Pastore e le metafore degli oranti.

Una delle prime immagini, forse la prima, di icona acheropita, cioè non dipinta da mano umana, è il Mandyllion, conservata a Genova nella chiesa di San Bartolomeo degli Armeni: il Sacro Mandillo, che fu inviato da Gesù Cristo, con impresso il suo volto, al re di Edesa Abgar, ammalato di lebbra, perché ne fosse guarito.

Si ritiene fosse stato concesso, per tre volte, all’evangelista Luca, medico e pittore, di ritrarre la Vergine mentre era in vita, in evidente contrasto con le regole del Vecchio Testamento che ritenevano blasfemo riprodurre in immagine una Divinità. E’ scritto infatti nel capitolo biblico dell’Esodo: “non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo” (Es. 30-40).

Riferita a Luca, nonostante che il fatto sia da più parti contestato, resta la tipologia dei tre ritratti che hanno costituito i tipi fondamentali delle icone mariane: l’ Eleousa, la Madre della tenerezza, quella che abbraccia ed è abbracciata dal Dio bambino mentre le rivela il mistero della sua morte e della sua resurrezione.

La più nota di questo tipo è la Vergine della tenerezza di Vladimir (fig. 1) commissionata dal principe Izjaslav di Kiev verso il 1130 e portata nel 1164 a Vladimir, città da cui prese il nome: l’ Odighitria, la Madre con in braccio il Bambino, che tiene in mano il rotolo della legge per indicare “la via, la verità, la vita” : la Gran Madre tricherousa, delle tre mani, ne è una variante. L’Orante, la Vergine con le mani alzate al cielo, come quelle degli oranti dei graffiti delle ere più antiche. Di essa è una variante la Madre di Dio del segno, quella che porta sul petto l’effige di Cristo nel ricordo della profezia di Isaia: “il Signore vi darà un segno, una vergine concepirà e darà alla luce un figlio cui porrà il nome di Emmanuel”.

Emmanuel significa “Dio è con noi”, “Gott mit uns”, motto di cui si appropriarono e fregiarono le armate tedesche di triste memoria.

Le icone cristiane hanno avuto origine dal punto di incontro dei mondi orientale e occidentale nella grande Bisanzio, divenuta nel 330 d.c. la Costantinopoli capitale dell’Impero Romano. Nacquero e si diffusero a partire dal V secolo quando non esisteva alcuna divisione tra le Chiese, anzi in un periodo in cui la Chiesa era unita nella lotta all’eresia.

Nel corso dei secoli la produzione di icone si è estesa in Egitto, Palestina, Libano , Etiopia, Grecia, Siria, Balcani e in tutta l’Europa Carolingia, soprattutto in Italia ove si trovano molte delle più antiche icone risparmiate dalla furia iconoclasta.

Parlando di icone, si pensa generalmente alla Russia: si tratta però di una accezione popolare, perché la Russia si convertì al Cristianesimo solo intorno al mille e fu quindi l’ultima a riceverle da Bisanzio. Ne deriva che le icone sono un patrimonio unico che appartiene a tutta la Cristianità.

Alcuni secoli prima dell’inizio dell’evangelizzazione della Russia, l’idea di rifiutare ogni rappresentazione di Dio in forma umana si fece strada con particolare vigore, specie nel VIII secolo, quando le idee iconoclastiche divamparono in una sanguinosa lotta che durò circa cento anni.

Dalla parte degli iconoclasti, si schierarono l’Imperatore e la sua corte, il Patriarca e la gerarchia ecclesiastica. Fra gli iconoduli, coloro che difendevano il culto delle immagini, c’erano i monaci, il popolo e ampi strati del basso clero. In questo periodo non si produssero immagini se non nelle estreme propaggini orientali dell’Impero e negli stessi anni vennero distrutte una quantità incalcolabile di opere delle epoche precedenti.

Uno dei difensori del culto delle icone, nel secolo VIII, fu Giovanni di Damasco, il damasceno, poeta e filosofo greco-arabo vissuto dal 676 al 740, che con le sue orazioni e i suoi scritti si fece carico di difendere le sacre immagini della furia iconoclasta.

L’Imperatore Leone III, per punirlo, gli fece tagliare la mano destra che fu appesa alle porte di Damasco. Giovanni supplicò la Madonna della sua icona perché gli fosse restituita la mano, promettendo che l’avrebbe sempre usata per scrivere in suo onore e la mano, nel più alto significato del mistero della fede, gli fu ridata. Le narrazioni dell’evento sono molteplici, alcune riferiscono che Giovanni, in segno di riconoscenza, applicò sull’icona,come “ex voto” una mano d’argento, altre che dipinse sull’icona una terza mano. Da quel momento l’icona venne riconosciuta come la Gran Madre delle tre mani ed entrò, con significato taumaturgico, nell’iconostasi come una della varianti della Madonna olighitria. Giovanni lasciò l’icona al Monastero di San Saba in Terrasanta. Cinque secoli dopo fu donata ad un’ altro Saba, figlio di re Stefano Nemanja, apostolo della chiesa serba, allora pellegrino in quella terra.

Quando la Serbia venne attaccata dai turchi, l’icona fu trasportata, a dorso d’asino, al Monastero di Monte Athos dove è tuttora conservata coperta da una magnifica riza d’oro e d’argento.

Al di là del significato liturgico, la Gran Madre delle tre mani assume nello studio della Mano dell’uomo, un valore particolare.

A Giovanni Damasceno, dottore della Chiesa di cultura greco-araba non potevano essere sfuggite le osservazioni e le idee sulla Mano che da Anassagora, a Aristotele, a Galeno, a Quintilliano e a tanti altri celebri studiosi, erano state oggetto di discussioni e anche di aspre diatribe, continuate nel tempo e certamente presenti nel pensiero degli iconografi che hanno partecipato al mistero con altre immagini.

Anche se la terza mano che compare nel prototipo di Giovanni può essere letta semplicemente come un gesto di ringraziamento, un vero e proprio “ex voto”, è già evidente che in essa traspaiono elementi antropologici atti a far comprendere che questa mano portandosi verso il braccio che ha di fronte sta elaborando un percorso di conoscenza e di riconoscimento da parte del soggetto cui è dedicata al quale ancora non appartiene.

In molte icone, specie nelle più antiche, la terza mano non appartiene evidentemente alla Vergine ma, se in alcune immagini è lontana dal braccio che cerca di raggiungere (fig. 2), in altre si avvicina ad esso come per cercare di conoscerlo ed esserne riconosciuta (fig. 3).

Nella gran parte delle icone successive, il processo di appartenenza è più evidente. La terza mano e il braccio sono identici in tutto e per tutto, anche nelle vesti e negli ornamenti, a quelli dell’immagine e se in alcune la mano è lontana dal braccio che ha di fronte sembra che allunghi le dita (fig. 3) come per afferrarne il polso per esserne definitivamente riconosciuta (fig. 4). Sono questi i termini entro i quali si muove ogni Mano umana per quelle caratteristiche peculiari di reciprocità sensoriale che solo a lei appartengono: per sapere di esistere deve toccare l’oggetto o il soggetto e esserne nel contempo toccata. Solo in questo momento la nuova mano troverà uno spazio cerebrale che sarà a lei dedicato e così farà parte per sempre del soggetto come una vera e propria Mano.

L’iconoclasmo, che negava il fondamento della coscienza cristiana, cioè l’incarnazione di Gesù Cristo, era inevitabilmente destinato a finire e, già nel 787 con il Concilio di Nicea, si cercò una composizione della controversia. Infine, grazie all’opera dell’Imperatrice Teodora, con l’editto del 843 fu riconfermata definitivamente la validità del culto prestato all’immagine e l’iconoclastia fu condannata come eresia.

Dopo lo scisma d’Oriente che nel 1054 sanzionò la separazione fra la Chiesa d’Occidente di lingua e rito latino guidata dal Papa Leone IX e quella d’Oriente retta dal Patriarca di Costantinopoli Michele Cerubario, anche le icone assunsero un significato distinto.

In Occidente, dopo lo scisma, le immagini sacre che adornavano i luoghi della fede, come quelle di Cimabue, di Duccio, di Giotto, persero il loro significato sacrale anche se l’arte medievale restò legata all’icona considerandola un’opera dipinta a soggetto sacro con intento devozionale. In Occidente le immagini non sono quindi sacre per se stesse ma lo diventano per il senso dato loro dai fedeli, per le attribuzioni miracolose e le manifestazioni di culto che ne derivano.

In Oriente l’icona resta un atto sacrale partecipe della sostanza divina. La mano dell’artista è sempre guidata dalla mano di Dio: è un atto liturgico completo che inizia con la preghiera, fino all’ascesi, già durante l’esecuzione dell’opera e si conclude con la benedizione. Il fatto estetico ha poco significato. Non si tratta di una tavola dipinta anche se il suo mistero si esprime attraverso la capacità dell’artista: ciò che campeggia nell’icona è Dio.

Nel Vangelo leggiamo e ascoltiamo la voce di Dio, l’icona invece ce ne evoca e rivela il volto.

Quando Bernardetta Soubirous, l’incolta contadinella di Lourdes, fu invitata a scegliere fra le varie immagini della Madonna quella che ritenesse più somigliante alla visione avutane, posò, senza nessuna incertezza, la mano su un’icona bizantina della Vergine del XI secolo.

Chi guarda un’icona, specialmente nel mondo occidentale, non trova facili criteri estetici per giudicarne la bellezza.

Un’icona è bella non quando corrisponde ai canoni dell’arte profana, ma quando è vera, quando cioè è una vera immagine dell’invisibile, fabbricata secondo un processo liturgico in cui la mano dell’artista è guidata da Dio.

La sua bellezza è quindi interiore, per cui continuerà ad esistere anche se sradicata dal suo contesto storico, teologico e, allo stesso tempo, anche se guardata solo come semplice immagine d’arte, non perderà il suo significato di rivelazione.