di Alfredo Sgarlato – Le riviste inglesi e americane, come The Wire o Pitchfork, che costituiscono l’avanguardia nel tentativo di scoprire le tendenze musicali in corso, nei mesi scorsi si sono particolarmente concentrate su un paio di filoni. Il primo è quello che viene chiamato Hypnagogic pop (come dire canzoni composte in stato di passaggio tra veglia e sonno) o Glo-fi (gioco di parole tra “lo-fi”, ovvero bassa fedeltà e “glow” ossia luce crepuscolare).

Si tratta di canzoni, fondamentalmente elettroniche, che mescolano il peggio della musica degli anni ’80: il rock da radio americana, la new age più stucchevole, le colonne sonore dei telefilm d’azione. Come ha scritto Valerio Mattioli (Blow Up #148) è come ascoltare una vecchia radio a transistor scarica sintonizzata su un programma del 1985. Molti dei rappresentanti del genere sono tornati addirittura ad incidere su cassetta. Qualche nome: Ariel Pink, Neon Indian, Nite Jewel, Geneva Jacuzzi, Sore Eros. Un operazione del genere porta inevitabilmente a chiedersi: che senso ha?

Un sociologo degli anni ’70 la troverebbe reazionaria, e non c’è dubbio che una fuga nella nostalgia e, oltretutto, di un passato che non è nemmeno reale ma in qualche modo fantasticato (come probabilmente avviene in ogni forma di nostalgismo) non depone a favore del presente e di chi lo abita. Rimane la musica: è valido l’hypnagogic pop? Dipende: se degli anni ’80 avete un confuso ricordo infantile o l’eredità dei fratelli maggiori questa musica può anche commuovervi. Se negli anni ’80 avevate (come me…) circa vent’anni e bazzicavate i territori dell’underground la riscoperta di cose che già all’epoca vi infastidivano vi lascerà alquanto perplessi.

Almeno un talento vero però il filone sembra averlo espresso: si tratta di Ariel Pink, il cui nuovo album Before Today esce per l’etichetta 4AD, simbolo degli anni ’80 più dandy e intellettuali (quindi l’esatto opposto di quello che l’hypanagogic pop rappresenta). Le canzoni mostrano una discreta capacità di scrittura egrande capacità filologica, ma gli arrangiamenti li trovo un po’ stucchevoli.

Totalmente diverso è l’altro filone che eccita da un paio d’anni la stampa musicale, il Dubstep. Di nuovo musica elettronica, ma lenta, spettrale, inquietante, dai bassi profondissimi. Gli autori si nascondono dietro strani pseudonimi: Vex’d, Burial, Scuba, Kode 9… spesso sono giovanissimi e, come Burial, si trincerano dietro a una riservatezza quasi kubrickiana. Il Dubstep riprende gli stilemi del trip hop degli anni ’90 (Massive Attack, Potishead) rendendoli però più radicali e, se vogliamo, continua le atmosfere dei filoni gotico e industriale degli anni ’80. Ancora nostalgia? Non direi: se col glo-fi si parlava di sogno qui siamo in un incubo.

Potremmo dire che il dubstep è la perfetta rappresentazione artistica dell’“idea di futuro come minaccia”, secondo la formula di Miguel Benasayag (una delle ultime teste pensanti in circolazione). Però ha un suo fascino, quello di un horror in bianco e nero, o di una performance di arte contemporanea. Musica non per tutti, che richiede un ascolto attento, ma è la più rappresentativo dei tempi in cui viviamo.

* il trend dei desideri: la rubrica Corsara di Alfredo Sgarlato