di Silvia Pattaro – Venerdì 4 marzo alle 21 presso il Teatro Nuovo di Valleggia sito in via San Pietro si svolgerà la rappresentazione dello spettacolo teatrale “Bartleby lo scrivano – Una storia di Wall Street”, tratto dal racconto omonino di Herman Melville.

Adattamento per il teatro di Marzia Todero, con Alberto Dall’Abaco (Bartleby), Denis Fontanari (l’avvocato), Christian Renzicchi (Turkey). Regia di gruppo con la collaborazione di Irene Lamponi. Produzione ariaTeatro 2008 con la collaborazione di Chiara Benedetti.

Il racconto di Melville – “Bartleby lo scrivano”, come altri esempi letterari sul Doppelganger (il sosia, il “gemello maligno”) – Frankenstein, Il compagno segreto, Mister Hide, Il sosia… – racchiude in sé l’intollerabile presentimento dell’alterità come elemento destabilizzante. La storia inizia proprio quando l’altro irrompe, con le caratteristiche di un’allucinazione, nella vita dell’avvocato, protagonista del racconto. La persecutorietà, il parassitismo depressivo e la prepotenza con cui il doppio (Bartleby) impone la propria presenza è la strategia che l’autore utilizza per riuscire a mettere in scena il dramma dell’umanità, poichè tutta l’umanità vi è rappresentata: la soggettività razionale retta da un eccessivo principio di realtà (avvocato), la furiosa passionalità di una vita inconsapevole (Turkey) tentano il doloroso ricongiungimento con la propria Ombra, con la componente dell’umanità che loro stessi celano. All’avvocato in particolare è richiesta un’apertura all’amore esistenziale che, prescindendo da quello classista e caritatevole, realizza un graduale avvicinamento alla propria imperfetta umanità. L’Ombra attacca l’antica e rassicurante immagine narcisistica del protagonista e la ferisce mostrando i difetti e le difficoltà sclerotizzanti di accogliere gli altri dentro di sé: la più grande piaga che infetta le relazioni umane nelle micro come nelle macro strutture.

L’aspetto forse più scandaloso, ma anche liberatorio, dell’Ombra è proprio questo: riappropriarsi attraverso di essa della capacità di dissentire e di correre il rischio del caos che nasce dall’accettazione dell’altro. La pace che ci consente di fare con la depressione che si cela dietro ad ogni narcisismo individuale e collettivo dell’apparire.

“Preferirei di no”: l’adattamento per il teatro – Tre tavoli, tre sedie e un attaccapanni ci portano all’interno di uno studio legale della New York di metà Ottocento, anche se l’atmosfera è in realtà quella di un non-tempo e un non-luogo dove si svolge l’ultimo periodo di vita di Bartleby. Presso lo studio legale dell’avvocato, narratore della storia, lavora il focoso Turkey, personaggio che porta sulle sue spalle tutto il versante comico della prima parte della vicenda. L’assunzione di Bartleby sconvolge la vita dell’ufficio e la storia inizia la sua vorticosa e ineluttabile spirale mettendo in scena l’ultimo tratto della vita di Bartleby, un uomo insolito, riservato, che dietro poche parole nasconde un’enorme sensibilità. A prima vista l’apparente fissità del suo procedere e lo sguardo spento possono far pensare ad un uomo vuoto: in realtà Bartleby è un uomo che è stato svuotato da ciò che è stata la sua vita. Una vita che gli ha insegnato che tutto corre verso la morte, proprio come quelle lettere che per lungo tempo si è trovato a dover smistare, lettere cariche di speranza mai giunte ad alcun destinatario.

L’incontro tra l’avvocato e lo scrivano si apre con un’iniziale distanza tra i due; l’avvocato sulle prime non riesce a comprendere il mondo che Bartleby racchiude in sé ma riesce a cogliere solo quello che lo scrivano fa emergere attraverso i suoi scarni “preferirei di no”; a mano a mano che il rapporto procede, però, l’avvocato inizia a subire il curioso fascino di quest’uomo silenzioso…