In direzione ostinata e contraria… Fabrizio De Andrè

di Maurizio Natoli – Parlare di musica – sopratutto in Liguria – senza citare Fabrizio De Andrè? Assurdo, diremmo.

Ma perché, forse è (o è stato) l’unica gloria? O perché è scomparso prematuramente? Forse perché è stato protagonista di un doloroso fatto di cronaca?

Niente di tutto questo, non sono queste le ragioni, o almeno non sono solo queste, e dimostrazione di ciò è che qualunque spettacolo lo possa riguardare, qualsiasi tributo, in qualsiasi modo il nome magico sia evocato, il successo è garantito.

Mi chiedo allora quali siano le ragioni di tale successo, quale sia il segreto del linguaggio che questo signore usava per imprimersi così profondamente nel cuore del suo pubblico, come mai nonostante l’uso di una lingua quasi incomprensibile anche per gli stessi Liguri, Creuza de Ma ha avuto un riscontro strepitoso…

Bene, io credo che la parabola (in senso geometrico) umana di Fabrizio de Andrè sia percepita dai suoi estimatori come metafora della propria parabola esistenziale, una vita di chiaro-scuri, luci ed ombre alle volte rischiarate da inaspettate dichiarazioni di fede “Ho sempre detto che Dio è un’invenzione dell’uomo, qualcosa di utilitaristico, una toppa sulla nostra fragilità… Ma, tuttavia, col sequestro qualcosa si è smosso”.

Una parabola (anche in senso di racconto morale dunque) che ha portato l’uomo De Andrè non tanto a rinnegare una vita da ‘bimbo sperduto’ di Barrieana memoria, piuttosto a ridefinire, con l’arrivo della maturità, un senso religioso che ‘in nuce’ era già presente sebbene soltanto (?) nella sua forma umana, al di là della Trascendenza.

La religione dell’Uomo ha dominato la vita del Nostro, salvo poi, in un momento drammatico (quello del rapimento) riscoprire la rassicurante presenza di Dio, nel momento del grido di dolore.

Personalità difficile (e questa non è una domanda) mi ricordo di averlo incontrato al funerale di un comune amico, lui rimase tutto il tempo in fondo alla chiesa, solo, capo chino e braccia conserte, dietro ad un gran paio di occhiali scuri che a malapena nascondevano occhi rossi di lacrime, mostrati poi al momento delle rituali condoglianze, una personalità che mi è stata tratteggiata attraverso i racconti di amici che suonavano con lui e che mi hanno raccontato di veri e propri drammi esistenziali vissuti sul palcoscenico, a rischio a volte di mandare a monte lo spettacolo.

Faber probabilmente odiava De Andrè, prova ne sia la sua ritrosia nei confronti del pubblico; probabilmente odiava il fatto di essersi posto in un limbo – quello dello chansonnier – ove la sua personale predilezione, invece, lo avrebbe meglio collocato – sia pure nell’ inferno – ma del poeta, proprio dove, a causa di un certo understatement così connaturato nella sua assoluta ‘ligustà’ (di levante e ‘cittadina’ però, molto diversa dalla ligustà – ad esempio – di Nico Orengo, piemontese anche lui ma ligure ’ponentino’ nel tratto letterario) non aveva voluto porsi, nonostante la presenza dei suoi versi nelle antologie scolastiche.

Assoluta ligustà abbiamo detto, supremo individualismo aggiungiamo, alla ricerca di una dimensione ideale (voce e chitarra) che ad un certo punto non fu più bastevole a supportare la potenza del verso e i contenuti delle sue canzoni, continui appelli alla gente di svegliarsi ché i vecchi schemi erano ormai alle corde, quasi come un predicatore millenarista a volte tragico, a volte sommesso, talvolta beffardo.

Sempre comunque contro tutti quelli che imponevano uno schema, di qualsiasi matrice fosse, e quindi attaccato da destra, da sinistra e anche dal centro; solo, con il suo pubblico, che oscuramente lo sentiva così simile, così vero, uno specchio vergognoso, attraverso il quale vedersi sbeffeggiati per quelle virtù eminentemente borghesi (ma anche ostentatamente ‘marxiane’), ambedue additate ed irrise da De Andrè.

Per aggiungere forza al suo messaggio o forse per sopraggiunta maturità artistica e sicurezza professionale, ad un certo punto della sua carriera scese a patti con la Musica; non più vago accenno di accordi da falò sulla spiaggia (che sino ad un certo punto lo avevano favorito e fatto arrivare ad un certo pubblico), ma incontro vero, con musica e musicisti veri – e come non ricordare il disco memorabile uscito con la PFM nell’ormai lontano 1979 – ai quali dare lo spazio che la musica ed i suoni meritavano, rendendo, per parte degli ascoltatori, più pregnante anche l’esperienza musicale con Faber, che in un’intervista, a proposito del curriculum studiorum di suo figlio Cristiano ebbe a dire con orgoglio di padre e di musicista: ‘è un musicista serio lui, diplomato in violino al Conservatorio Paganini di Genova!’, lentamente divenuto conscio quindi dell’importanza che la fruizione di una canzone passa anche attraverso la ricerca degli arrangiamenti e le sonorità.

Dunque De Andrè riuscì a sdoganare la sua urgenza espressiva attraverso l’apertura volontaria dell’invisibile frontiera che per istinto metteva tra sé e gli altri, pur nella sua grande ritrosia, invitando a partecipare del suo linguaggio anche i più attenti al ‘fattore musica’, oltre che alla bellezza dei testi ed al loro contenuto.

La miscela divenne alchemica, lo spazio sul palco fu moltiplicato attraverso i suoni di 100 corde, fisarmoniche, percussioni, strumenti a fiato di tutto il Mediterraneo, il linguaggio se possibile diventò ancora più tagliente e scomodo, basta paragonare le parole di ‘Bocca di Rosa’ con quelle di ‘Princesa’: la prima ingenua descrizione di un piccolo vizio privato con annessa pubblica virtù ma sempre nei canoni ortodossi di quella provincia sonnacchiosa ed in fondo bonaria che alla fine si riscatta con un cartello giallo con una scritta nera, che lancia l’addio affettuoso di un intero paese alla meretrice generosa; la seconda invece cupa e disperata, la storia di qualcuno che cerca, per dirlo con Eco, di correggere il proprio oroscopo, con la chimica o la chirurgia, in un dramma che necessita, per compiersi, di un sacrificio rituale, quello della metà rifiutata e quindi soccombente.

Un sacrificio che in fondo molti compiono, quando – sempre ritualmente – si sbarazzano dell’incomodo Über-Ich, che ostinato e molesto si presenta puntuale a ricordar loro i fallimenti.

Il punto è che nello sbarazzarci dell’ospite sgradito, come nel ‘William Wilson’ di Poe, si potrebbe per errore uccidere noi stessi sacrificando forse la parte migliore, seppure la più scomoda, in ogni caso una parte costruita pazientemente, promessa per promessa, bugia per bugia, lacrima per lacrima.

E come avverte Miguel de Unamuno ‘Coloro che ritengono di credere in Dio, ma senza la passione nei loro cuori, l’angustia nel pensiero, senza incertezze, senza dubbi, senza un elemento di disperazione anche nella loro consolazione, credono solo nell’Idea di Dio, non in Dio stesso.’

Ma De Andrè (e non solo lui) ce lo ha promesso, faremo parte delle ‘Anime Salve’, anche chi si trova sempre e comunque ‘in direzione ostinata e contraria’.

da Flatlandia: la rubrica Corsara di Maurizio Natoli

1 Commento

  1. ……… è difficile aggiungere qualcosa a quest’articolo, forse l’unica cosa che mi verrebbe da dire è che per comprendere e sviscerare tutti i versi di De Andrè si potrebbero riempire mille e mille pagine oppure basterebbe ascoltarlo.
    Forse di torta di riso ce n’è ancora…….

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