[fp] – Presso il Centro Artistico e Culturale Bludiprussia in Albissola Marina (Piazza Nicolò Poggi) vernissage sabato 11 giugno alle ore 18.00 per la mostra “Utopia dell’altrove” di Renata Buttafava, una personale di sculture in ceramica presentata in occasione del Festival della maiolica 2011. La mostra e il catalogo – con Testo Critico di Giovanni Schiavo Campo – sono a cura di Paola Grappiolo.

A spiegare il titolo scelto per la personale di Buttafava è la stessa curatrice: “Se il livello emotivo, quello su cui basiamo l’energia del nostro essere nel quotidiano non basta, talvolta ricerchiamo ispirazioni mentali o fisiche oltre ai confini da noi conosciuti. Quest’altrove – spiega Paola Grappiolo – è un nostro meta-modello rappresentativo: quello che vorremmo che fosse. Quando la scultura con l’argilla, come nel caso di Renata Buttafava, mantiene la primordialità della terra in forme ancestrali, la sua rappresentazione è quella fantastica di un mondo, sopra e sotto il mare, del tutto naturale e originale. Argilla come ricerca di forme, colore, evocazioni nella terra dei vasai e dei grandi artisti che l’hanno nobilitata”. La mostra resterà aperta sino al 26 giugno dal giovedì al sabato (orario: 17-19,30) e domenica su appuntamento (per info: 338-3172458).

Le improvvisazioni sul tempo della scultura di Renata Buttafava

di Giovanni Schiavo Campo – La scultura di Renata Buttafava non indica un punto di partenza da cui si sviluppi concettualmente. Risvolto piuttosto singolare per una pratica artistica che d’altra parte nulla concede al caso o all’arbitrio. L’idea, presente all’artista, non è rintracciabile in un progetto all’origine, in un disegno o in un abbozzo. Tutto si direbbe quindi nascere già preordinato, oppure come improvvisazione, variazione tematica (quasi in senso musicale); comunque espressione di un processo, in sé sicuro e definito, per il quale è soprattutto essenziale il controllo di ogni momento esecutivo: altrimenti la realizzazione fallisce.

È una tecnica messa a punto con la terra, per la terra, che non mi risulta avere equivalenti in questo materiale. È un prendere forma per progressivo accumulo e adattamento di rotoli di argilla trattati in modo da assumere tutta la plasticità e duttilità preliminarmente necessarie: un lavoro che ricorda quello del cordaio. Vi è in effetti qualcosa di analogo in un’attività che sembra quella di annodare, di creare intrecci sempre più ampi e modulati fino a dimensioni anche di un certo rilievo in altezza. Conformazioni, a prima vista, in scala geologica: di una geologia desertica di cui si potrebbe Immaginare siano il vento o la pioggia ad averle modellate. È l’impatto immediato di queste sculture, che hanno però anzitutto come termine di confronto la terra, le misure che ne costituiscono l’immanenza.

Filo conduttore meno apparente del pure innegabile aspetto naturalistico, gioco a suo modo voluto con l’ambiguità della materia, con un divenire in trasformazione che l’arte si trova ogni qualvolta di fronte. Implicazione del resto essenziale alla natura del tempo di ricondurre ogni forma, naturale o artificiale, sotto il proprio dominio che finisce per equiparare tutto in una continuità e contiguità infinite motivo per cui i bassorilievi del tempio induista arrivano a fare tutt’uno con la foresta o le abitazioni di terra dell’agglomerato contadino africano col paesaggio. Il procedere del tempo è da questo punto di vista lo stesso della scultura: ne assume il senso, ne acquisisce misure, modalità che hanno come oggetto di restituzione l’opera (che per questo in qualche modo le fa proprie).

Di qui la priorità di una ricerca di pulsioni, ritmi, scansioni: che siano rievocati da un’archeologia astronomica di cui fanno parte ziqqurat e gnomoni solari, come mostrano le prime prove della scultrice, ovvero il prodotto di una sintesi nuova, ma coerente negli esiti di questa successiva evoluzione. Il passaggio è quello dal costruire all’azione formatrice, demiurgica che giunge a conformarsi al processo naturale. Dietro tutto ciò vi è un intelligente assorbimento di pratiche e di saperi, ben comprensibile a chi conosce di Renata Buttafava la sua formazione sull’arte africana cui si è dedicata a lungo come restauratrice. La decisione di abbracciare la scultura ne è stata forse la conseguenza, come lo è senz’altro la nostalgia appunto africana di questi lavori.

Ma l’Africa ne è la chiave anche culturale, proprio considerando l’interesse ‘archeologico’ degli esordi della scultrice: è il deposito di miti, probabilmente tuttora narrati nei villaggi, in cui sopravvivono echi della civiltà babilonese. Eredità che, da conoscitrice, non pare sfuggita a Renata Buttafava, verosimilmente per questo partita riallacciando i fili con quel lontano passato. Confronto fruttuoso da cui sembra averne desunto la logica della costruzione: un’architettonica con molti punti in comune con i più recenti sviluppi labirintici. A cominciare dall’abitudine a ragionare in termini geometrici, di sezioni in pianta, premessa indispensabile per costruire in elevazione. O meglio per stratificazioni: diciamo così per ribadirne il nesso per cui l’aspetto geologico consegue dalla geometria ed entrambi i piani rientrano in un approccio così ben interiorizzato dall’artista da non sentire forse per questo il bisogno di una stesura sulla carta.