di Alfredo Sgarlato – Secondo gli studiosi dell’argomento il culto che è nato in America intorno alla figura di Elvis Presley si può considerare una vera e propria religione. Secondo i fan più accaniti Elvis e non Gesù il vero figlio di Dio e la parte finale della sua vita è il martirio: Elvis diventa grasso brutto e drogato (cioè accoglie in sé i peggiori mali del mondo, sempre nell’ottica di un americano medio) e quindi muore per salvarci.

Aldilà del contenuto delirante di queste affermazioni ci interessa capire quale similitudine c’è alla base del confronto Elvis-Gesù. Quale è il contenuto rivoluzionario del messaggio cristiano? Gli uomini sono tutti figli di Dio, quindi tutti uguali. Questo il principio di quell’epoca che viene definita modernità, contro una società tradizionale inflessibilmente gerarchica. Quando nell’America degli anni ’50 irrompe Elvis questa modernità è realizzata? Assolutamente no, una donna di colore può essere arrestata per aver occupato il posto sbagliato sull’autobus. Elvis sfonda nell’immaginario collettivo non tanto per meriti artistici (non è niente di più di un bel ragazzo con una bella voce) ma perché è un bianco che si comporta come un negro: canta il blues, la musica del diavolo e, soprattutto, il suo modo di fare è sessualmente esplicito, cosa ammissibile per un cantante black ma non per un ragazzo Wasp (white anglo-saxon protestant, n.d.a.).

Quindi Elvis mostra che finalmente l’uguaglianza è possibile. Ben presto Presley viene affiancato da altre icone della modernità: Audrey Hepburn, la donna padrona del suo destino (e ultrafemminile anche se non maggiorata) o J.F. Kennedy, che cambia l’immagine del capo: non un misto tra un generale e Zampanò com’erano Hitler, Mussolini o Mao ma un primo della classe bello ed elegante (o detto in maniera meno ironica, non tanto una specie di divinità pagana che si presenta soprattutto come corpo, Mussolini che miete il grano, Mao che attraversa il fiume a nuoto, ma un uomo normale, che però ha le qualità che lo hanno portato a sfondare).

L’apparizione di questi miti moderni scatena tutto un mondo di culture giovanili, beatniks, mods (non per niente diminutivo di moderns), hippyies, punks, che propongono una rivoluzione sociale non classista ma estetizzante (e infatti scatenano l’odio dei conservatori molto più di rivoltosi politici, meglio sfruttabili). Quanto dura questa modernità? Poco. A cavallo degli anni ’80 si impone una nuova generazione di leaders che piacciono non per le loro qualità ma per i loro difetti: Reagan, Thatcher, Bush e i loro epigoni Blair, Sarkozy etc etc…

In campo artistico l’equivalente della Thatcher è Madonna. Luisa Ciccone alias Madonna non è particolarmente brava, non è particolarmente bella, però crede in sé e per questo sfonda, se ce l’ha fatta lei ce la puoi fare anche tu. Il tutto condito con un pizzico di pseudotrasgressione. Madonna è una piccolo borghese che non si vergogna più dei propri difetti. È finita la modernità e comincia l’era postmoderna: non siamo tutti uguali siamo tutti omologati tutti prodotti di un immenso supermarket, vince chi ha la strategia di vendita migliore.

Peggio di Madonna faranno le sue epigone, da Britney Spears (personaggio interessantissimo per il sociologo su cui varrà la pena di ritornare) e i suoi cloni tutti standardizzati, tutte con una carriera pre-programmata (con tre tappe obbligatorie: verginella repubblicana, lolita maliziosa, zoccolona) fino alla bruttissima copia Lady Gaga, la citazione della citazione del nulla, il trionfo della postmodernità. Per non parlare degli artisti del cattivo gusto, da Cattelan a Hirst, quelli che vogliono “provocare” o essere trasgressivi in una società supermarket dove questi termini non hanno alcun senso.

* il trend dei desideri: la rubrica Corsara di Alfredo Sgarlato