di Alfredo Sgarlato – Qualsiasi siano stati i risultati e l’effetto del referendum del 12 e 13 Giugno, per lo studioso di fenomeni sociali l’aspetto veramente interessante è stato lo svolgimento della campagna referendaria. C’è stato qualcosa di nuovo anzi di antico. L’antico è stato il grande ritorno alla piazza, magari con la novità dei “flash mob” (raduni spontanei collegati ad azioni di tipo performance), le catene umane, i gesti situazionisti come gli striscioni di Greenpeace sventolati durante la finale di Coppa Italia o sui monumenti, uniti ad un lavoro di volantinaggio.

Ma anche questi raduni non sarebbero stati possibili senza le nuove tecnologie, i cellulari e soprattutto la Rete, vera protagonista della campagna. La televisione ha dedicato spazio ai referendum solo negli ultimi giorni, spesso con servizi fuorvianti o senza contraddittorio e i così i partiti, saltati sul carro all’ultimo momento. La gran parte del lavoro è stata compiuta dai comitati spontanei formati da cittadini (tra cui chi scrive) che non avevano mai fatto politica prima e probabilmente non torneranno a farla, e già dalla raccolta delle firme si era capito che la risposta degli elettori sarebbe stata trasversale.

Qui è stata Internet a far da padrona. Sui social network si è scatenata una gara di creatività nell’invitare a votare creando immagini spiritose o video divertenti. Cito un mio vecchio amico che ha inventato slogan partendo dal gruppo rock degli Yes o disegnando uno spartito con quattro Si. O la foto con la ragazza a letto che grida quattro volte si, che ha fatto arrabbiare le amiche di un mio collega e divertito le mie…

Il grande pregio della rete è la velocità: un immagine una volta pubblicata impiega pochi minuti a raggiungere centinaia di persone. E un video su You tube che smentisce dopo pochi minuti una notizia farlocca pubblicata da un quotidiano è più efficace di una smentita formale su un tg. Inoltre il popolo della rete ha saputo usare l’arma dell’ironia, molto più efficace dell’attacco diretto all’avversario. Volendo si può estendere il discorso: la capacità di trarre un risultato reale da un’iniziativa nata su Facebook mostra come quelle virtuali non siano solo “comunità immaginarie” come le hanno definite alcuni sociologi ma possano diventare comunità reali di tipo “orizzontale”.

Mi spiego meglio: i comunitaristi (Kimlica, Mc Intyre, Veneziani) pensano che l’antidoto ad una società postmoderna priva di legami e basata su edonismo e profitto sia il ritorno a comunità di individui che si percepiscono come simili. Ma il loro modello di comunità è verticale, ovvero quello tradizionalista basato su radici religiose o etniche. Non credo che nella società attuale possa funzionare, perché questo modello viene dall’alto e non dal basso. Per cui si creano comunità “orizzontali” basate su affinità culturali liberamente scelte.

Ovviamente è presto per dire se siamo di fronte ad una mutazionale sociale o anche solo mediatica o se siano solo fenomeni passeggeri. Però sarà per giorni il principale argomento di discussione.