di Alfredo Sgarlato – Nei giorni scorsi è passata giustamente inosservata, se non tra gli addetti ai lavori, una polemica contro la “casta dei critici”. Due premesse sono necessarie: la prima è che, se Rizzo e Stella hanno avuto un’idea geniale e un’iniziativa doverosa col loro libro “La Casta”, da allora è un florilegio di libri e articoli che sezionano tutte le caste e controcaste possibili. Prima o poi uscirà un libro contro la casta di quelli che criticano la casta. La seconda è che promotore della polemica è Pierluigi Battista (detto anche “cognomen omen”), un uomo terribilmente risentito, uno che è saltato sull’ultima ruota del carro prendendo una facciata terribile.

L’accusa di Battista è la più risibile. È quella che i critici sono lontani dal gusto del grande pubblico. Ma se uno non è critico che critico è? come direbbe Totò. Quello di Battista è “snobismo populista”, quello dei figli di papà che dopo una lettura frettolosa di Don Milani si vergognavano di non essere figli del proletariato, negli anni ’70 militavano in formazioni maoiste come “Servire il popolo” e oggi espiano i propri sensi di colpa guardando il grande fratello. A una lettura più profonda poi si capisce facilmente come questi attacchi ai critici siano messaggi trasversali contro quelli che osano dire che il re è nudo.

Ciò detto, esiste davvero una funzione sociale della critica? Esiste ancora una critica? Il lettore medio della critica cinematografica è una persona come me che prima o poi trova qualcuno che gli propone di fare lui il critico. Lo spazio sui quotidiani dedicato alla critica è quasi scomparso. In campo cinematografico, con paio di eccezioni, le riviste di critica sono incomprensibili a chi non sia un professore universitario. Poi c’è l’altro male della società contemporanea, quella che ci vuole tutti “postmoderni” ed “emo”: quello che dice che l’Arte è qualcosa di incomprensibile e si possono dare solo giudizi di pancia (salvo inalberarsi se il popolo da giudizi di pancia quando vota). Sarà, ma io quando vedo un critico che dà 2 ad Almodòvar e 10 a De Oliveira mi chiedo se questa sia critica o solo sfogo adolescenziale.

Ma allora perché ostinarsi a scrivere di cinema (o di altre arti)? Primo perché chi scrive è un innamorato non geloso e se io riesco a convincere almeno una persona a vedere capolavori come “I’m a cyborg and that’s ok” di Park Chan Wok o “The days of being wild” di Wong Kar Wai non gli avrò salvato la vita ma una serata almeno sì, alla faccia di maggiordomi e snob populisti. Secondo perché la storia del Cinema (e di tutte le arti) è un percorso e come diceva la mia prof “se nun se studia Kannete, nun se può studià Ficchete, Marckese e Bergsonne”, così se non si conoscono Hitchcock, Sirk, Wilder o Mankiewicz non si possono capire Almodòvar o Ozon. E non sono boiate pazzesche, credetemi.

* il trend dei desideri: la rubrica Corsara di Alfredo Sgarlato