Il sovversivismo delle classi dirigenti

di Franco Astengo – Antonio Gramsci scriveva già, al suo tempo, di “sovversivismo delle classi dirigenti”: una definizione che si attaglierebbe perfettamente anche alla situazione attuale, contraddistinta dall’inedita gravità della crisi economica, accompagnata nello specifico del “caso italiano” da una crisi verticale della credibilità dell’“agire politico” nel suo complesso e da una “questione morale” che investe per intero il delicato tema del rapporto tra etica e politica.

Una crisi complessiva che è possibile definire come di carattere “sistemico” che colpisce duramente i comuni cittadini nel complesso della materialità delle loro condizioni di vita ed anche nell’idealità del sistema di valori e delle aspirazioni future.

Una crisi che testimonia del fallimento epocale di un intero “ceto dirigente” che si è definito, cercato, voluto come “separato” dalla normale vita quotidiana, trincerandosi dietro un’altissima siepe di incomprensibili privilegi.

Un “ceto separato” (composto, come vedremo non soltanto dai cosiddetti “politici”) che, oggi, nel suo insieme si rifiuta di fornire plausibili spiegazioni al riguardo di ciò che è effettivamente accaduto nel corso degli ultimi anni; spiegazioni riguardanti il “perché” siano stati spezzati i legami che univano passato, presente, futuro unificando il tutto nel mostro di un presente “divoratore” a vantaggio del più forte.

Altri “perché” dovrebbero essere spiegati: come è successo che si è dato “via libera” a un processo di finanziarizzazione esclusivamente speculativa (senza alcun margine di accumulazione, in funzione di investimenti) che ha finito con il distruggere la maggior parte dell’economia reale; come si è formato questo gigantesco debito pubblico che minaccia a questo punto non tanto e non solo la sovranità degli Stati ma addirittura l’essenza stessa della democrazia, minacciando il definitivo “via libera” al dominio dei già affermatissimo organismi sovranazionali, ben distanti anch’essi dalla vita dei cittadini ma anche da ogni possibile forma di controllo collettivo.

Una crisi, quella che stiamo vivendo giorno per giorno, condotta dai “potenti” con inaudita ferocia ideologica, puntando a ripristinare antiche “condizioni di classe” che pensavamo ormai superate a favore di un compromesso, instabile e precario sicuramente, ma comunque abbastanza forte per sostenere una linea di miglioramento delle condizioni complessive delle classi subalterne: un compromesso, venuto fuori da contraddizioni storiche di enorme rilevanza (guerra, rivoluzioni, ecc.) del quale la sinistra ha smarrito completamente la memoria, tagliando le proprie radici e consegnandosi, mani e piedi già legati, all’ideologia dell’avversario, in nome dell’analisi sbagliata della fine – appunto – dell’ideologia e della distinzione destra/sinistra (perfino Norberto Bobbio cercò, inutilmente, di richiamare la sussistenza di questa distinzione, ma, nella parte terminale della sua opera, fu molto riverito e altrettanto poco ascoltato).

Descritto, sommariamente ma crediamo realisticamente, lo stato delle cose in atto, proviamo a ritornare alle questioni di casa nostra.

È il momento degli industriali: divisi tra chi, smentendo la parola data e rivelando (se mai ce ne fosse stato bisogno) il proprio volto dichiara di andarsene dall’Italia perché vi esiste ancora una pallida idea di contrapposizione sociale che critica la sua visione delle “magnifiche sorti e progressive”, e tra chi detta dal pulpito (dei giornali e/o dei convegni) la propria ideologia, manovrando per spostare (se possibile) ancora più a destra l’asse politico del Paese, ignorando il quadro politico europeo e dimostrando il solito provincialismo corporativo: non apriamo qui il capitolo del nostro “capitalismo straccione” (un vecchio dibattito a sinistra: ma abbiamo nostalgia dei convegni del “Gramsci” sull’argomento) che ha già governato l’Italia, non dimentichiamolo, modernizzandosi grazie alla polizia di Scelba, ai contributi della Cassa per il Mezzogiorno, alla CIG pagata da tutti e usata, storicamente, dai “padroni” (si può ancora usare questa parola?) come arma di intimidazione politica.

La risposta da destra, a questa tecnocrazia rampante che punta alla dittatura delle coscienze e di un modello di vita segnato, dalla propria parte, dalla priorità della “contraddizione principale” di marxiana memoria, è ancora quella del populismo impastato di revanscismo, della concezione “proprietaria” della politica, del pressapochismo, del decadentismo da “fine impero” (niente a che fare con D’Annunzio o con il modernismo di Pitigrilli) che ha caratterizzato questi ultimi 20 anni di infinita “transizione italiana”.

Sul lato sinistro della vicenda abbiamo già scritto e riassumiamo in una sola battuta “smarrita la sinderesi”: con il PD che non riesce a trovare un punto unitario d’azione su qualsivoglia argomento roso all’interno da personalismi nati non a caso ma quale frutto dell’orientamento assunto da una precisa vicenda storica; e con quella che avrebbe dovuto rappresentare una nuova soggettività politica, SeL, imprigionata all’interno del modello ormai in crisi del leaderismo, e incapace di scegliere sulle discriminanti fondative, sia sul terreno economico-sociale, sia nel campo dell’agire politico (riassumeva bene, oggi, una lettrice del “Manifesto”: maggioritario/Proporzionale; gestione pubblica/liberalizzazioni; lettera della BCE o rifiuto della logica del debito).

Infine, destra e sinistra assieme cercando di correre, spaventate, ai ripari rispetto all’evidente corto-circuito esistente tra i cittadini e il ceto politico, evidenziatosi, nell’immediato (ma non è stata davvero una sorpresa per nessuno) dalle firme raccolte per promuovere il referendum elettorale.

Firme, sia ben chiaro, attraverso le quali tante persone hanno inteso lanciare una sorta di “grido di dolore”, senza che ovviamente la gran parte di essi intendesse entrare nel merito delle scelte conseguenti al sistema elettorale.

Un referendum promosso, come appare evidente, al solo fine della lotta interna al centrosinistra e del posizionamento di alcuni attori politici in cerca di leadership nel quadro delle futuribili, più o meno, possibili “primarie”.

Il “ceto politico separato” discetta così di “preferenze” e di “collegi uninominali” pensando attraverso l’utilizzo di queste tecnicalità di colmare, almeno parzialmente, il fossato che si è scavato e che, in queste condizioni, appare del tutto incolmabile.

La strada della ricucitura di una qualche forma di relazione positiva è ben più lunga della scorciatoia della modifica della legge elettorale e rischia di rimanere, come quella dell’inferno, lastricata di buone intenzioni se non si recupera l’idea della politica come rappresentazione concreta della realtà sociale, come momento di promozione di nuovi livelli di attivizzazione dal basso, come punto di riferimento per soggettività collettive intrecciate tra loro nell’idea della ricerca del bene comune , dell’interesse generale, dell’identità culturale, della prospettiva per il futuro.

Senza alcuna indulgenza verso improvvisati “rottamatori” capaci soltanto di promuovere se stessi, servirebbe davvero una nuova classe dirigente non solo in politica.

E aperto il dibattito sul “come”: quella imperante e clamorosamente impegnata nella ricerca soggettiva del proprio riciclaggio ha clamorosamente fallito e ad essa vanno chiesti i conti.

Registreremo, probabilmente, quando sarà il momento, tanto per rimanere sul terreno della “politica fine”, una forte disaffezione dal voto: ma sarà ancora più complesso e difficile interpretare il voto di chi, rispettando ancora le regole della democrazia formale, esprimerà la propria indignazione attraverso il suffragio.

Un suffragio carico di attese alla quali sarà necessario cercare di rispondere con impegno ed onestà intellettuale, pena la definitiva implosione del sistema.