di Alfredo Sgarlato – Quando ero ancora uno studente, più di venti anni fa, vidi un film intitolato “La morte in diretta”, in cui gli ultimi giorni di una malata terminale erano filmati e mandati in onda costantemente. All’epoca era etichettato come film di fantascienza; oggi è realistico. Il video della morte di un motociclista è il più cliccato su You Tube; non mi stupisco, non molto tempo fa il filmato di un camorrista assassinato sotto gli occhi indifferenti dei passanti aveva avuto analoga fortuna.

Si dice che non c’è spettacolo più grande della realtà, e il pubblico ne è assolutamente convinto. Specie in un’epoca in cui siamo bombardati da immagini, frullate ad un ritmo sempre più veloce, e questo ci sta facendo perdere l’immaginazione e la memoria, rendendoci sempre più appiattiti sulla realtà, cosa che, come dice la psicoanalisi, è un’altra forma di follia, ma non dimentichiamo che il rifiuto dell’immaginazione e l’esaltazione del realismo sono sempre stati il cavallo di battaglia di tutti i totalitarismi.

E in una società senza memoria e immaginazione, sempre più veloce, “liquida” come la definiscono i sociologi, si perde il significato dei sentimenti, che sono profondi e duraturi, a scapito delle emozioni, che sono forti, immediate e violente, specie se negative e per continuare a esistere devono essere sempre più forti, come avviene con la droga (i meccanismi cerebrali coinvolti sono gli stessi). Quale emozione più forte della Morte in diretta? Da tempo i picchi d’ascolto nei gran premi coincidono con la partenza, la fase in cui è più probabile un incidente.

Ma non c’è solo questo. In una società che sta abbattendo tutti i tabù, in cui pudore e vergogna sono parole senza senso, la morte rimane l’ultimo tabù. Mentre nella società antica, legata alla natura e ai suoi cicli, la morte era accettata come fatto ovvio, la società attuale, dominata dalla tecnologia, vive l’esistenza della morte come una sconfitta, per cui la si nasconde (come si fa con la vecchiaia) con perifrasi e chirurgia estetica, con rituali televisivi. Cos’è, se non un’assoluta negazione della morte in nome del culto della Tecnica, l’incomprensibile legge sul testamento biologico in discussione al Parlamento? Contemporaneamente, come fanno gli adolescenti che la sfidano e la evocano continuamente per capirla ed esorcizzarla (perché la morte per un adolescente è ancora un concetto confuso), la si normalizza, la si mostra, la si mette in scena perché non sia “oscena”(cioè nascosta alla vista, significato originale del termine).

Ogni volta che mi connetto ad internet scopro che è morto qualcuno, che sia una superstar o un rocker maledetto di culto. Con tutto il rispetto che si deve ai morti, lo spazio accordato nei telegiornali ai funerali è davvero esagerato. Sarebbe facile cavarsela dicendo che le TV danno spazio a notizie innocue per nascondere quelle vere. L’hanno sempre fatto e con i servizi sulla moda, i gelati, le divette, gli animaletti simpatici. C’è qualcosa di più complesso.

Osserviamo un fenomeno parallelo, quello della nostalgia. Sono stato ad un concerto di un gruppo di revival anni 70’/80 (la musica dei “miei tempi”). A cantare le canzoni in coro erano i ragazzini, non i quarantenni. Se da una parte, come hanno scritto fior di studiosi del comportamento umano, da Benasayag a Baumann a Beck nella società post-moderna dominata dal precariato il senso del Futuro non esiste più, sembra anche che il presente non sia interessante. E chi appartiene al passato è automaticamente mitico.

Ma se nel mondo antico l’appartenenza al mito era data dall’immortalità, oggi, che il culto dell’eterna giovinezza e quello dell’invincibilità della tecnica, soprattutto in medicina, hanno reso la morte un tabù, è il morire che rende mitici, quasi fosse un gesto anticonformista. E se morire è mitico il funerale diventa l’evento, quello a cui devi partecipare per sentirti parte di un tutto, esperienza sempre più rara nella società parcellizzata e individualista, come fare un provino tv, o andare a vedere il Papa anche se non credi, o partecipare ad un megaconcerto dove ti piace un artista su dieci. La morte ha reso interessante (cioè parte del passato) quella persona di cui in vita non importava nulla, e andando al funerale entri a far parte della sua vita. Anzi, di più, della sua Morte.

Eppure, nonostante si cerchi in ogni modo di sconfiggere e nascondere la morte questa è sempre più corteggiata. Cos’è se non ricerca della morte la continua ricerca dello sballo, della perdita dei sensi mediante alcol droghe e musiche ripetitive? Come mai nonostante l’inutile lezione della Storia ideologie mortifere non passano di moda, vedi il caso del norvegese Anders Beyrik e i commenti di alcuni fresconi italiani? Qui bisogna tornare al caro vecchio Freud. Il padre della psicoanalisi sosteneva che l’uomo è spinto da due pulsioni, quella di vita, Eros, e quella di morte Thanathos. I critici sostennero che questa era l’unica teoria freudiana non derivante dal lavoro clinico ma da una suggestione culturale. Infatti egli la sviluppò dopo la guerra mondiale e la nascita del fascismo. Per anni gli psicoanalisti hanno respinto la teoria del”istinto di morte, eppure in epoche come questa, in cui Thanatos domina, non si può che dare ancora una volta ragione a Freud.

* il trend dei desideri: la rubrica Corsara di Alfredo Sgarlato