Political Essay – 7 Novembre

di Franco Astengo – 7 Novembre 1917 (25 Ottobre secondo il calendario giuliano, al tempo ancora in uso nell’Impero zarista), novantaquattro anni fa, la presa del Palazzo d’Inverno, il momento culminante dei “dieci giorni che sconvolsero il mondo”: una pagina ingiallita di storia che nessuno, probabilmente, in questi giorni oserà ricordare se non per sottolineare, ancora una volta, il fallimento epocale del tentativo di “inveramento statuale di un fraintendimento del marxismo”.

Eppure ci pare il caso, ancora di ricordare quel giorno, laddove non si realizzò semplicemente un “assalto al Cielo” effimero e utopistico, ma un tentativo di riscatto sociale in un grande paese, che assunse, tra contraddizioni enormi ed errori di formidabile portata, il ruolo di esempio per il proletariato mondiale.

Certo, la rivoluzione non era scoppiata nei Paesi a sviluppo industriale avanzato, come Marx aveva previsto, e il giovane Gramsci, venticinque anni all’epoca, intuì subito questo elemento scrivendo il famoso articolo “La Rivoluzione contro il Capitale” (proprio quello di Marx, beninteso).

La rivoluzione era insorta in un paese arretrato, di scarsa industrializzazione per lo più concentrata in poche zone del paese, retta da uno Stato autocratico in via di disgregazione, con la fame nelle città e milioni di contadini semianalfabeti strappati ai loro villaggi per combattere una guerra a loro ignota.

Sicuramente fu l’esito della guerra a consentire la ribellione di quei contadini che delegittimarono i vertici di un’armata ormai in disfatta.

Eppure la rivoluzione, preparata sul piano teorico e politico dal nucleo dirigente bolscevico, rispondeva ai grandi temi di quel momento storico: al grande dibattito sull’imperialismo, nel quale il problema della guerra era parte e conclusione proprio di diverse analisi della grande trasformazione del capitalismo intervenuta in quegli anni; il salto tecnologico, allora rappresentato dall’introduzione sistematica delle nuove scienze della produzione; la crescita, comunque, del movimento operaio concentrato in grandi strutture industriali; lo spazio maggiore per concessioni salariali; l’istruzione generale, che riduceva l’analfabetismo ancora dominante, ma creava barriere di classe non meno rigide; la rapida accelerazione degli scambi commerciali mondiali; la spinta al riarmo che accresceva il peso politico delle caste militari e, ancora, l’introduzione del suffragio, faticosamente in via di allargamento verso i ceti sociali più bassi, che imponeva e permetteva di cercare e spesso di ottenere, il consenso con nuovi strumenti ideologici come il nazionalismo e il razzismo.

Dalla rivoluzione russa nacquero grandi interrogativi che hanno attraversato per intero la storia del ‘900 e che, ancora adesso, possiamo formulare come tali: è stata una scelta sciagurata che portava già all’origine in sé i cromosomi delle peggiori degenerazioni, e, alla fine, si è autodissolta dopo aver fatto danni pesanti?

Se la risposta a questo quesito appare essere irrimediabilmente positiva, come ormai nel corso di questi anni da più parti si è solennemente acclarato, allora non occorre più ricostruire un processo storico nel suo contesto: basta individuare quei cromosomi, far parlare il fatto della sconfitta finale, lasciarlo al solo lavoro accademico e archiviarlo politicamente.

La “spinta propulsiva” dell’Ottobre non si è esaurita, semplicemente non c’è mai stata.

Oppure la Rivoluzione russa è stata un grande evento propulsivo per la democrazia e l’incivilimento, successivamente tradito dal potere personale e dalla burocratizzazione, senza un rapporto con il contesto storico dal quale era originato e in cui si collocava?

Allora sarebbe ancora sufficiente, adesso, una robusta denuncia dello stalinismo, una franca critica di chi non lo ha condannato in tempo, le fierezze dell’antifascismo, per sentirsi liberi di cominciare da capo, in un mondo nuovo.

Sono proprio le contraddizioni dell’oggi, portate dalla grande crisi della globalizzazione a farci apparire del tutto riduttive le domande appena poste, legate davvero a uno schema antico.

Nel momento in cui servirebbe davvero una grande spinta popolare, politica, organizzativa tendente a mutare radicalmente il tipo di società in cui viviamo e a ricostruirla “pietra su pietra” il 7 Novembre non può essere dimenticato come fatto storico ed evento politico, non solo per la necessità evidente di una valutazione più seria e circostanziata rispetto a quella contrassegnata dalla “furia iconoclasta” dell’ultimo decennio del ‘900, ma quale esempio della corresponsione, in quel contesto, a una necessità storica che non riguarda soltanto un solo, pur grande, Paese.

Il contesto storico: il frangente che stiamo vivendo, con la crescita enorme delle diseguaglianze e delle ingiustizie a livello planetario, indica che quel fatto, quel 7 Novembre, non può essere indicato come un semplice “accidente” e definitivamente archiviato.