di Alfredo Sgarlato – Il febbraio del 1932 è stato un mese fortunato per il cinema. Il 6 nasceva Francois Truffaut, il 18 a Caslav, allora in Cecoslovacchia, Milos Forman. Il suo cinema era il frutto dell’esplosione della Nouvelle Vague francese, che insegnava un modo nuovo di fare cinema, molto più libero rispetto a quello degli Studios hollywoodiani, e del relativo disgelo politico che vivevano i paesi dell’Est europeo in quegli anni. Questo permise il debutto di alcuni veri giganti della settima arte: oltre a Forman, Polanski, Tarkovskij, Skolimowski, Ioseliani, Paradzanov.

I primi film di Forman trattano un tema caro ai registi francesi: l’ingresso dei giovani nell’età adulta. Il divertente “L’asso di picche” (1964) e il commovente “Gli amori di una bionda”(1965), nel raccontare i disagi di ragazzi che non riescono ad adattarsi alle costrizioni del sistema, criticano velatamente il regime. Nel successivo “Al fuoco pompieri” (1967) – che non ho mai visto perché mai trasmesso in tv – la critica si fa più esplicita e Forman è costretto all’esilio (come tutti gli artisti sopracitati, escluso Paradzanov che finì addirittura in carcere).

Negli USA Forman realizza un primo terzetto di film straordinari. Se il primo, l’esilarante “Taking off” (1971, Gran Premio a Cannes), storia di una famiglia alle prese con la figlia contestatrice, è meno noto, i successivi sono nella leggenda. “Qualcuno volo sul nido del cuculo”(1975), denuncia dell’istituzione manicomiale interpretata da un cast sensazionale (Jack Nicholson e poi Brad Dourif, Danny De Vito, Christopher Lloyd, Vincent Schiavelli: tutti attori che hanno faticato a uscire da questi personaggi di culto) vince cinque Oscar quanto mai meritati ed entra nella lista dei film del cuore di chiunque. “Hair”(1979), musical antimilitarista ha poco successo perché realizzato mentre i tempi stavano cambiando, ma rivisto oggi è un classico.

Negli anni ’80 un nuovo terzetto di film, stavolta in costume. Il primo, “Ragtime”, è la trasposizione di un romanzo di Doctorow; poco riuscito perché massacrato dalla produzione che tagliò tutte le parti politiche, era un soggetto più nelle corde di Altman, che doveva inizialmente dirigerlo. Anche il terzo, “Valmont” (1979), tratto dal romanzo di Laclos “Le relazioni pericolose” fu un insuccesso, perché venuto dopo l’omologo film di Frears che godeva di un cast più incisivo. Ma non è un brutto film e va riscoperto.

Successo incredibile invece per l’opera mediana, “Amadeus” (1984), da una commedia di Peter Shaffer. Storia molto romanzata, ma film con molti momenti di autentico grande cinema. Ottimo cast, con Tom Hulce che fu schiacciato dalla sua straordinaria interpretazione di Mozart. Altra pioggia di Oscar, otto, e nuova strage di cuori cinefili. L’insuccesso di “Valmont” mise Forman fuorigioco e solo nel 1996 riuscì a dirigere “Larry Flint oltre lo scandalo”, biografia di un bizzarro editore pornomane (interpretato a un ottimo Woody Harrelson). Film discreto, che intristisce perché fa notare che la battaglia contro la censura a favore della libertà di stampa è tutt’altro che vinta.

Segue “Man on the moon”, altra biografia di un comico pazzo sconosciuto in Italia, con Jim Carrey al culmine della sua bravura. È un film veramente bello, ma fu un altro insuccesso. Forman vede fallire molti progetti, finché realizza nel 2005 “L’ultimo inquisitore (Goya’s ghosts)”, non perfettamente riuscito e forse con un cast sbagliato, però comunque da vedere anche per i contenuti sempre anticonformisti. Quindi una malattia agli occhi ferma la sua carriera. Peccato, perché come continua a girare capolavori Clint Eastwood avrebbe potuto continuare anche Forman.

* il trend dei desideri: la rubrica Corsara di Alfredo Sgarlato