di Franco Astengo – 28 Aprile 1971 – 28 Aprile 2012: “Il Manifesto”, quotidiano che ancor si fregia, nella testata, della dicitura “quotidiano comunista” compie quarantun anni. Ancora un compleanno da ricordare, quindi, per questo giornale dalla storia così complessa e travagliata: un compleanno che, qualche mese fa, appariva quasi come un miraggio essendo prevalente l’idea di una chiusura forzata, fin qui evitata grazie allo sforzo e all’impegno di tanti che hanno ritenuto non dovesse esaurirsi in questo modo, per strangolamento, una vicenda politica e culturale storicamente collocata dalla “parte del torto”.

Ebbene la mia intenzione, nel ricordare questa scadenza, è quella di fare in modo che non sia smarrita l’origine della vicenda politica sulla base della quale, quarantun anni fa, si decise di dar vita ad un quotidiano del tutto originale nel panorama della stampa dell’epoca (quattro pagine, 50 lire, completa autogestione).

Ricordare la vicenda politica del gruppo del Manifesto, sottolineando che da quella vicenda politica nacque il quotidiano è assolutamente importante proprio oggi, nel momento in cui la sinistra italiana, o quel che ne rimane, stretta da improbabili demiurghi e assunzione di idee movimentiste e non meglio precisate “benecomuniste”, soffre di una gravissima crisi organizzativa, politica, ma soprattutto al riguardo della propria memoria in funzione di un recupero di identità.

Naturalmente, in questa ripresa di “memoria storica” non può essere obliato il percorso specifico compiuto dal quotidiano e dal suo collettivo redazionale: un percorso straordinario, quasi incredibile, se pensiamo alle difficoltà materiali, organizzative, economiche incontrate da un soggetto che, via, via si è trasformato profondamente dal punto di vista culturale, politico, dei riferimenti sociali, del modo di intendere l’informazione, nell’uso delle tecnologie (sotto quest’ultimo aspetto sempre all’avanguardia, in verità, fin dai tempi della “teletrasmissione”, ed eravamo ancora negli anni’70).

Ma, soprattutto, non può essere dimenticato il cammino compiuto sul terreno specificatamente politico.

Per chi è appartenuto, fin dall’inizio, all’area politica all’interno della quale il “Manifesto” è nato, all’epoca della rottura con il PCI e della rivista, (un’area politica che possiamo ancora definire “sinistra comunista”, riferendoci a quel tempo?) e anzi, ha anche partecipato in prima persona alla vicenda della costruzione di un soggetto politico di riferimento (quel PdUP un po’ negletto che, a mio giudizio personale, è stato forse più importante sotto certi aspetti, di quanto non sia stato considerato nelle diverse ricostruzioni storiche che, via, via, sono state elaborate) l’occasione è buona per ripercorrere un cammino e rammentare quanto sia cambiato il cielo sopra di noi e le cose che ci stanno attorno.

Pur tuttavia il tema di fondo, paradossalmente, sembra rimasto lo stesso: caduto il “socialismo reale”, venuta avanti la controffensiva liberista, mentre sono andate esprimendosi contraddizioni sociali non contemplate dal manuale di Stein Rokkan (quelle, cioè, definite dai politologi “post-materialiste”), è rimasta, per intero, la necessità di elaborare una prospettiva di profonda, radicale, trasformazione della società e della politica, perché sfruttamento, disequilibri, guerra sono ancora lì a dominare la scena del mondo.

Ci troviamo dentro ad una crisi che, approfittando ancora una volta del processo (non nuovo, pensiamo alle analisi di Hilferding) di finanziarizzazione dell’economia, le classi dominanti cercano di usare per stabilire, antichi e insieme inediti, meccanismi di sopraffazione di classe.

La politica, almeno quella che avevano conosciuto nella nostra gioventù, pare proprio aver abdicato al proprio ruolo e lasciato spazi enormi, praterie che non si riescono a percorrere

Ecco, questa mia opinione, di vecchio militante del primo “Manifesto” sarà controcorrente: ripenso al giornale di questi oltre quarant’anni e intravvedo, alla fine, una parabola discendente: dall’idea ambiziosa di rappresentare il “punto critico” dell’idea più profonda e importante che la storia abbia prodotto attorno al tema del cambiamento, l’idea del comunismo che si era fatta partito, organizzazione, soggetto radicato nella società, fino a una sorta di “inseguimento” eclettico delle contraddizioni, senza l’elaborazione e l’offerta di una sintesi, come del resto sta proprio accadendo all’interno del dibattito di questi giorni.

Il “Manifesto” ha rappresentato, per una certa fase, un’ipotesi politica compiuta, una soggettività presente: poi, caduti i grandi soggetti, cambiato l’assetto sociale, emerse novità forse imprevedibili (ma è anche mancata la capacità d’analisi; anzi l’idea dell’analisi è stata proprio abbandonata): ma questo fatto non è avvenuto certo per responsabilità del collettivo del “Manifesto”, anzi) si è assunta una veste diversa, di lettura, in certi casi oscillante, della realtà consolidata; di semplice “lettore” per certi versi acritico dei “movimenti” (che pure avrebbero bisogno di una critica adeguata); di assunzione di forme di iniziativa diverse e, dal mio punto di vista, abbastanza estranee culturalmente (so di parlar male di Garibaldi, ma il “Manifesto per un nuovo soggetto politico” pubblicato qualche giorno fa, non mi convince proprio, tanto per fare un esempio. Così come, a suo tempo, mi è apparsa debole la posizione rispetto ai limiti del movimento contro il G8 e, adesso, mi sembra eccessiva la condiscendenza verso la personalizzazione della politica).

Rimane, certo, la capacità di stare dalla “parte giusta” rispetto ad alcuni nodi cruciali: quello della democrazia, quello del movimento dei lavoratori, ma pare essersi affievolita la capacità di penare a una prospettiva politica compiuta, a un’idea di “nuova egemonia”.

Affiorano, dunque, dalle pagine del giornale un eccesso di movimentismo e di personalismo: i due difetti più gravi della sinistra di oggi ( o meglio, ripeto: di quel poco che rimane di sinistra di oggi).

Insomma, sarò un nostalgico del tempo in cui “si stava meglio, quando si stava peggio”: ma il puntuale acquisto mattutino del giornale (che pure viene eseguito) non ha più quel sapore emozionante che c’era quando si pensava di agire, sul serio, per un’impresa collettiva, per un’eresia importante rispetto alle forme organizzate che aveva assunto il più grande progetto di riscatto sociale della storia, quello del comunismo, e della sua forma, anch’essa anomala, del Partito Comunista Italiano.

Sono andato “a vela”, come si diceva una volta: ho messo insieme, pensieri un po’ disordinati, che mi sono venuti alla mente pensando a questi decenni di vita comune.

Auguri “Manifesto”.

* Franco Astengo – Savona, politologo