di Franco Astengo – Se si leggono, con una qualche attenzione, gli atti del surreale dibattito svoltosi in questi giorni alla Camera dei Deputati attorno al cosiddetto ddl “anticorruzione”, ci si accorge, prima di tutto, che sono proprio finiti quei tempi nei quali era necessario, in una qualche misura, proteggere l’attività politica da una legislazione che, applicata in piena dimensione di “classe”, dalla casta dei magistrati (beninteso: “casta” dei magistrati rimasta tale da allora) puntava a riconoscere come sedizioso il semplice esercizio dell’attività sindacale in fabbrica.

L’insieme della discussione sul tema della concussione e il “salvataggio” sino al 2018 al riguardo della presenza in lista di condannati (per la gran parte per reati contro il patrimonio) dimostra come la lezione, di antica data, relativa all’intreccio tra questione morale e questione politica non sia stata minimamente acquisita dalla gran parte dei componenti di un’altra casta, quella dei parlamentari e, soprattutto, non siano state tenute in conto le istanze presenti nella società al riguardo dei temi della moralità pubblica e dei cosiddetti (una brutta espressione, che uso davvero malvolentieri soltanto per esigenze di facilità di comprensione del discorso) dei “costi della politica”.

Un intreccio, quello tra “questione politica” e “questione morale” che viene avanti da tempo, ben prima di Tangentopoli, alla quale si era pensato di porre rimedio attraverso il finanziamento pubblico dei partiti, tramutatosi invece, quale vera e propria beffa della storia, nello strumento attraverso il quale il malcostume politico ha compiuto quel salto di qualità, tale da rendere incredibile l’intero sistema.

La mia annotazione, in questo senso, riguarda a vicenda del senatore Lusi, eletto nelle liste del PD e tesoriere della fantomatica “Margherita”, appropriatosi secondo fonti giornalistiche, di 20 milioni di euro (40 miliardi delle vecchie lire) che appunto ha riproposto in termini pressoché inediti il tema del rapporto tra questione politica e questione morale che già tante volte ci era capitato di affrontare in passato.

Vale la pena di ricordare come il “caso” questa volta presenti particolarità da sottolineare con attenzione: prima di tutto l’enormità della cifra che mette il dito sulla piaga dell’esagerazione proprio sul piano “quantitativo” nell’elargizione dei rimborsi elettorali che hanno, surrettiziamente, preso il posto del “finanziamento pubblico” ai partiti a suo tempo bocciato per via referendaria; in secondo luogo sulla colpevole inadempienza, da parte di tutti, nell’applicazione dell’articolo 49 della Costituzione, al riguardo dei meccanismi di controllo di effettiva capacità dei partiti di concorrere con metodo democratico alla vita politica del paese.

I partiti sono indispensabili alla democrazia: ma sarà soltanto attraverso una regolamentazione rigorosa della loro trasparenza interna (compresa quella riguardante i meccanismi di finanziamento) che potranno ritrovare la credibilità e l’autorevolezza necessaria per svolgere il loro ruolo.

Qualche mese fa ci eravamo posti questa domanda, nell’occasione dell’emergere della vicenda della cosiddetta P3: cosa si rileva di diverso del passato?

Da un certo punto di vista qualcosa è cambiato anche se l’organizzazione del rapporto di affari tra politica, imprenditoria, amministrazione più o meno appare inalterata (nelle intercettazioni rese pubbliche pare riecheggiare il fatidico: “A Fra’ che te serve?”, in certi passaggi giustificazionisti pare tornare di moda “la macchia nera su di un vestito bianco” dal titolo di Rinascita, nel 1985, quando si tentò di denunciare la malversazione imperante negli Enti Locali imperniata su di un distorto ruolo “pivotale” del PSI che le vicende Biffi Gentili a Torino e Teardo in Liguria avevano disvelato, ma della quale non si voleva prendere coscienza per timore di alterare il quadro delle alleanze nel Comuni, nelle Province e nelle Regioni ( solo sette anni dopo il “mariuolo” Mario Chiesa consentì di mettere allo scoperto gran parte del traffico).

Così come appartengono all’eterno ritorno del sempre uguale gli intrecci tra malavita organizzata, imprenditoria da “riciclaggio” e politica a livello locale, anche in zone geograficamente lontane da quelle del Sud, laddove intere parti del Paese appaiono in mano alle varie cosche.

Non è una novità, davvero, questo tipo di penetrazione al Nord.

Così come non è nuovo, il rovesciamento di ruolo tra poteri forti dell’imprenditoria e personaggi politici, basato non più sulle tangenti ma sull’asservimento complessivo dei politici, totalmente dipendenti per i loro voraci bisogni proprio dai cosiddetti “poteri forti” (poi lasciamo al Presidente del Consiglio l’ironia, un po’ macabra, su questo tema).

Enucleiamo però alcuni elementi di evidente “diversità” rispetto all’epoca di Tangentopoli, ed anche rispetto alle vicende di qualche mese fa, quando partì l’offensiva anti-intercettazioni e di cui si è nutrito anche il dibattito in corso in questi giorni: il “ceto politico” coinvolto pare proprio muoversi, in un quadro complessiva da “basso impero”, in una logica davvero definibile di regime: evidentemente a destra emerge un’analisi della società italiana come in piena crisi morale, con una borghesia impoverita e impaurita, vero e proprio “ventre molle” e i ceti del lavoro dipendente dispersi e polverizzati ; soggetti incapaci di proporre un’alternativa, in un quadro assolutamente disastrato dal punto di vista politico.

In questo ambito il rischio, come è stato evidenziato anche dall’esito dei test elettorali più recenti, appare quello di un regime “tecnocratico” assolutamente avulso dai meccanismi della rappresentatività o di un ritorno a un regime di tipo populistico- personalistico, dai margini davvero ridotti sul piano del confronto democratico e del superamento “de facto” della Costituzione Repubblicana (alla faccia delle idee di “larghe intese” e di “condivisione”).

Due ipotesi di destra, diverse fra loro, ma comunque due facce della stessa medaglia anti-popolare.

La crisi vera appare essere allora quella del tessuto morale, culturale, civile; un tessuto sul quale hanno fatto sfracelli la logica devastante della Lega ormai imperante da anni e in via di trasferimento dalle tradizionali regioni di appartenenza; il tracollo dei partiti politici; l’idea di una “politica di cartello” basata sui privilegi di un ceto, con il drammatico rimando a una presunta investitura popolare (hanno concorso a creare questo stato di cose anche l’idea della “vocazione maggioritaria”, la logica delle “primarie”, il tentativo di imitazione di meccanismi politico – istituzionali totalmente fuorvianti rispetto al “caso italiano”, la mancata battaglia per un’idea di “Europa Politica” che stabilisse un confine, di metodo e di merito, per ben distinte entità politiche, davvero alternative), di cui il senatore Lusi, che si giustifica dicendo “mi servivano” appare essere davvero l’emblema.

All’interno di tutto ciò c’è chi sparge a piene mani il veleno della cosiddetta “anti-politica”.

Un’idea dell“anti-politica” sparsa a piene mani da soggetti ben diversi dall’accusato numero uno “Movimento 5 stelle”

Anche in passato, del resto, dalla “questione morale” erano emersi i fattori determinanti di uno spostamento complessivo a destra, le cui componenti abbiamo già citato e che ripetiamo: populismo, personalizzazione della politica, cooptazione dall’alto e/o “dal basso” se guardiamo ai criteri di selezione del ceto dirigente, cui ovviamente non possono opporsi le “primarie all’italiana” che, fra l’altro, non si fanno proprio nelle occasioni in cui potrebbero anche avere un senso, al di là del nostro personale giudizio negativo sullo strumento in sé; giudizio ancora più negativo per l’assenza dei minimi strumenti di garanzia che il PD rifiuta di adottare quando decide di usare quest’arma a doppio taglio.

Non basta per fronteggiare questo stato di cose, assai grave, quella che è stata definita “bella” o “buona” politica: in particolare quando si presume di esercitare questa “buona politica” attraverso strumenti indefiniti nella loro identità politico -organizzativa, basati proprio sull’uso della personalizzazione e del populismo.

Serve, invece, prima di tutto l’ingresso sulla scena politica italiana di un soggetto che manca: un soggetto in grado di indicare, in prospettiva, un diverso modello di società, di relazioni politiche, economiche sociali.

Un soggetto dove l’interesse pubblico e collettivo prevale, che non sia “un’isola”, si confronti con il resto, ma si realizzi comunque attraverso strumenti di agibilità dell’azione politica in modo da tenere assieme la partecipazione, la rappresentanza, la capacità di direzione.

Forse, per arrivare a ottenere un risultato in questa direzione, dovremo passare per una fase complessa, scenari inediti, incroci e rotture, ma è necessario partire tentando un primo nucleo di “unità a sinistra” e usiamo volutamente la parola “sinistra” con un richiamo di carattere storico che mi pare, a questo punto indispensabile, come cercheremo di argomentare di nuovo più avanti.

Serve un partito che intrecci assieme questione politica e questione morale, nell’accezione in cui Machiavelli distingue i partiti dalle fazioni (portatrici di disordini), quali portatori degli “umori sociali”: un partito portatore, insieme, di una ragione universale e strumento per l’intervento nelle istituzioni e, insieme, punto di coagulo del blocco sociale più avanzato.

La nostra esperienza, quella della sinistra italiana del ‘900, l’esperienza delle organizzazioni storiche del movimento operaio, dei socialisti, dei comunisti, delle rispettive “eresie” di sinistra, non può, sotto questo aspetto, essere gettata al macero, ignorata, cancellata dalla memoria storica di un Paese che ne ha, invece, assoluto bisogno.

Abbiamo ceduto su questo terreno, molto tempo prima dell’implosione dei grandi partiti di massa avvenuta con “Tangentopoli” e la caduta del Muro di Berlino; avevamo ceduto al corporativismo e a un’idea, sbagliata, di democrazia diretta di tipo leaderistico, di vera e propria americanizzazione”; all’idea dello “sbocco del sistema politico” e della “governabilità” ad ogni costo.

Occorre recuperare un’idea di partito, comprendendo appieno come quella che è stata definita “partitocrazia” (da Maranini) può essere superata soltanto tornando alla piena rilevanza della rappresentanza politica collettiva.

A questo modo, nel recupero di questo tipo di idea di partito, può sciogliersi in positivo l’intreccio tra “questione politica” e “questione morale”, interpretando la crescente complessità sociale nella forma della tensione al cambiamento e impedendo che il definitivo crollo della partecipazione politica apra la strada al trionfo finale dei “corpi separati”, se non dei singoli approfittatori del “bene comune”, anche sotto l’aspetto banale dell’appropriazione indebita della cassa di un soggetto collettivo.

Il dibattito in Parlamento, attorno al tema della corruzione, ha dimostrato come si sia di fronte ad una guerra per bande alla caccia dell’impunità e dell’eterno riciclaggio di un disastroso “sempre uguale”.

I rischi, nell’imperversare della crisi economica frutto delle perversioni del peggior capitalismo speculativo, sono molto alti, da valutare con grande attenzione.

* Franco Astengo – Savona, politologo