di Alfredo Sgarlato – Sin dalla prima proiezione è stato evidente che “Pietà”, di Kim Ki Duk (si pronuncia Dok) era il principale favorito per il Leone d’Oro. Kim è uno dei più importanti autori dell’ultima generazione, è adorato dai cinefili, ingauni specialmente, e aveva già vinto un Leone d’Argento con “Ferro 3”, uno dei pochi film recenti per cui la definizione di capolavoro non è improvvida. Tra il 1996 e il 2008 Kim, che nasce pittore, ha girato sedici film (che ho visto quasi tutti e solo uno mi ha deluso), finché, dopo aver visto un’attrice rischiare la morte sul set è stato colto da una grave depressione. Per tre anni ha vissuto da eremita, girando poi una spietata videoconfessione dal titolo “Arirang”, da una canzone popolare che Kim deve amare particolarmente, visto che l’ha anche cantata ricevendo il premio da un attonito Michael Mann. Con “Pietà” ritorna alla violenza e all’impegno sociale dei primi film, dopo una serie di opere più poetiche e simboliste.

Ampiamente annunciato anche il premio come miglior attore, dato ex aequo a Philip Seymour Hoffman e Joaquim Phoenix, interpreti di “The Master” di Paul Thomas Anderson, premiato anche come miglior regista (e anche in questo caso nulla da ridire: l’autore di “Magnolia” e “Il petroliere” Maestro lo è senza dubbio). Il primo caratterista che ha impreziosito molti dei migliori film del decennio finalmente assurto a protagonista; il secondo, anche si gli trovo un’inquietante somiglianza col calciatore Vieri, mi ha sempre convinto, dal debutto in “Da morire” di Van Sant, alla straordinaria interpretazione in “Two lovers” di James Gray, passando per il credibile Johnny Cash di “Walk the line”. Questo film ha diviso la critica, tra chi lo vedeva potenziale Leone d’Oro e chi lo voleva più deciso nella condanna di Scientology, dimenticando che per un autore è legittimo non aspirare al martirio.

Il fanatismo religioso è stato un tema dominante della Mostra, come del resto è un tema dominante in questo nuovo millennio così poco spirituale e troppo poco laico; di fanatismo religioso parla l’israeliano “Fill the void”, di Rama Bursthein, per cui la graziosa Hadas Yaron è stata premiata come miglior attrice, unico premio a sorpresa e poco applaudito alla cerimonia finale. Ne parla anche il Gran premio della Giuria “Paradise: faith” di Ulrich Seidl, che ha diviso pubblico e critica. Aspettiamo di vedere il film per giudicare, anche se a quanto si legge viene da pensare che alcune scene siano eccessivamente provocatorie.

Delusa la stampa anche perché “Apres mai” di Oliver Assayas, autore che, confesso, non amo (il suo “Irma Vep” lo metto tra i dieci film più brutti che ho mai visto) ha vinto solo il premio per la sceneggiatura e ci si aspettava qualcosa di più. Solo premi di consolazione per il cinema italiano: migliore fotografia Daniele Ciprì e miglior attore esordiente Fabrizio Falco, presente sia nel film di Ciprì che in quello di Bellocchio. Gli sciacalli della stampa ideologica che si nutre di disprezzo esulteranno: lasciamoli esultare, tra un paio di giorni tornerà il piagnisteo sulle presunte egemonie culturali.

Rimane però la questione: perché ai festival non vincono mai i film italiani? Perché sono troppo parlati e troppo legati a realtà locali, e le giurie internazionali non riescono a entrarci dentro, come invece succede con film più visivi e filosofici. C’è poi la pletora dei premi minori, che fa sì che l’elenco dei premiati alla fine quasi coincida con quello dei film presentati. Ricordiamo solo “L’intervallo”, primo film a soggetto del documentarista Leonardo Di Costanzo, che ne ha fatto incetta. Nell’insieme le cronache parlano di un buon festival, dove i film italiani erano tutti validi (qualcuno non ha ancora distribuzione) e solo un paio di film hanno lasciato perplessi: “Spring breakers” di Harmony Korine, autore di un altro dei dieci film più brutti che io abbia mai visto “Julien the donkey boy”, film che pure ha avuto sostenitori, e, dispiace dirlo, “To the wonder” di Terrence Malick.

Per me che ho scoperto l’allora sconosciuto regista texano quando ventenne mi innamoravo del cinema, con capolavori come “I giorni del cielo” e “La rabbia giovane”, il pur premiato “The tree of life” era stato una grossa delusione. Pare che questo nuovo film prosegua su quella via ingigantendone i difetti, e il film è piaciuto solo a chi, non io, ne condivide la morale. A questo punto non resta che vedere i film.

* il trend dei desideri: rubrica Corsara di Alfredo Sgarlato