di Alfredo Sgarlato – Mi ha fatto molto piacere sapere che tra i possibili premi Nobel per la letteratura ci fosse Umberto Eco, che non abbia vinto è un dettaglio. L’alessandrino è uno degli scrittori italiani più originali ed eclettici, e soprattutto è dotato di ironia. Da giovane fu dirigente dell’Azione Cattolica, poi la tesi di laurea su San Tommaso d’Acquino, racconta, fu causa della perdita della fede. Entrò negli anni ’50 a lavorare alla RAI con Vattimo, Guglielmi e altri giovani promettenti; la leggenda narra che con Vattimo costituiva una coppia di mezze ali che rendevano la squadra RAI imbattibile nei tornei aziendali. Nel 1962 un suo saggio di critica letteraria, “Opera aperta”, funge da spunto per il movimento d’avanguardia “Gruppo ’63”.

Alcuni suoi testi raggiungono il grande pubblico, come “Diario minimo”(1963) e “Apocalittici e integrati”(1964), dove esamina dottamente fenomeni quotidiani, come diventerà d’uso quando sfonda il cosiddetto “postmodernismo”. Fanno discutere particolarmente la “Fenomenologia di Mike Buongiorno”, che individua nella mediocrità la molla per il successo di massa, o l’ “Elogio di Franti”, attacco al buonismo in tempi non sospetti.

Nel 1980 stupisce pubblicando “Il nome della rosa”, noir medievale che va in testa alle classifiche e viene tradotto in 47 lingue. Il tempo delle classifiche dominate da comici, cuochi e giardinieri era ancora lontano. Da allora alterna saggi e romanzi, dividendo pubblico e critica in sostenitori entusiasti e detrattori incarogniti. I primi sono quelli che i libri li hanno letti davvero, divertendosi molto (nel mio caso escludo “L’isola del giorno prima”, che mi ha annoiato).

Ma Eco è davvero grande come scrittore? Certamente se il metro di paragone sono Dostoevskij o Simenon esce sconfitto. Ma se lo paragoniamo alla media degli italiani, soprattutto degli anni ’80 in cui, esclusi Benni e Tondelli, la mediocrità assoluta trionfava, è tra pochi che vale la pena preferire a un buon telefilm. I detrattori si dividono in tre categorie.

Il primo caso è quello di critici e scrittori militanti, che non si capacitano del fatto che un non romanziere abbia osato scrivere un romanzo e sia persino riuscito a venderlo. Perché in Italia, e forse anche altrove, si pensa che un intellettuale, specie se non ortodosso, sia votato all’ascetismo e al martirio, quindi guai a lui se vende. La stessa sorte che tocca anche a Roberto Saviano e Vito Mancuso.

Il secondo caso è politico. Eco si pronunciò decisamente contro Berlusconi. Ora, uno dei pilastri del mito di Berlusconi è che chi lo critica lo faccia perché invidioso della ricchezza e del successo dell’ex premier. È evidente che se a criticarlo è qualcuno come Eco, Fo, Benigni, che non è povero ed è molto più famoso di lui, quel pilastro crolla.

Il terzo caso è il più interessante dal punto di vista dello studioso del comportamento umano. Eco nei suoi romanzi migliori (“Il pendolo di Foucault”, “Baudolino”, “Il cimitero di Praga”) tratta del tema del falsario e di ciò che ne consegue, la storia riscritta, le società segrete, le teorie cospirazioniste e quindi l’antisemitismo, vere religioni del nostro tempo, e lo fa con acume, smontandole con l’ironia. Non stupisce che Cassieri, il “Breivik italiano”, attaccasse in alcuni suoi scritti “il savio di Alessandria”. Perché l’ironia, si sa, è, insieme con le donne intelligenti, il peggior incubo di fanatici e servi sciocchi.

* il trend dei desideri: rubrica Corsara di Alfredo Sgarlato