On. Anna Giacobbe: Legge di stabilità? Così com'è non va…

La legge di stabilità è in discussione in questi giorni in Parlamento; molte le questioni ancora aperte, come sottolinea anche deputata savonese Anna Giacobbe (Pd).

LETTERE&INTERVENTI – (on. Anna Giacobbe) – Nella nostra discussione di oggi dobbiamo tenere conto, da un lato, di valutazioni e giudizi di merito, dall’altro della possibilità di raccontare le cose che facciamo e di dare ad esse il valore che hanno davvero.

Il punto è quale segno noi vogliamo dare al passaggio più significativo, nell’arco dell’anno, della politica redistributiva e di investimento pubblico. Ci sono cose che non sono nelle disponibilità di questa fase politica; e tuttavia del senso della nostra presenza in questo governo dobbiamo dare conto, e deve avere, anche poco il segno della fiducia e della speranza. Il messaggio non è “fine dell’emergenza”, anzi; sarebbe sbagliato, oltre che impossibile. Ma un segno va dato, una direzione di marcia, che solo un governo diverso potrà imboccare con la decisione e l’efficacia necessaria, ma che è già chiaramente leggibile, pur nel “compromesso”.

Prima questione: gli equilibri interni del complesso del provvedimento tra i grandi capitoli: casa, finanziamenti e trasferimenti alle imprese, alleggerimento fiscale e contributivo per i lavoratori, dipendenti e non, valore delle pensioni, interventi sul sistema previdenziale e degli ammortizzatori per dare un reddito a chi lo ha perso, interventi di politica sociale, investimenti con risorse nazionali e comunitarie, ecc.

Se noi dessimo quegli equilibri per definiti e immodificabili, il lavoro del Parlamento si ridurrebbe a stentate operazioni di aggiustamento, tutte dentro una logica di competizione tra “sfighe” diverse, tra chi, senza lavoro, ha cinquantacinque anni e chi ne ha 25 oppure 30, tanto per fare un esempio.

Secondo: lavoriamo con tre vincoli, quelli politici che derivano dal compromesso da cui è nato il governo, quelli finanziari; infine il vincolo burocratico, degli apparati e delle procedure, che assediano i passaggi che dovrebbero trasformare in fatti le cose che la politica decide, al centro e in periferia.

I primi sono quelli che angosciano un elettorato attento e consapevole, che vede solo nella fine di questa esperienza di governo la possibilità di fare bene, e che giudicherà le scelte delle legge di stabilità soprattutto con questa lente; i secondi finiscono per concentrare su di sé la gran parte della nostra attenzione; il terzo è quello che mina nel profondo la fiducia della generalità delle persone, che vorrebbero anche apprezzare una scelta di governabilità, di stabilità, la nostra responsabilità, e che si trovano di fronte il volto di uno stato spesso nemico. E le imprese ne avrebbero da dire a questo proposito.

Detto tutto questo, il segno, la direzione di marcia deve essere che le misure sono insufficienti ma “giuste”, e che sono insufficienti ma “utili”, comprese le cose che non costano denaro, ma rendite di posizione, consenso a breve, la pigrizia del “si è sempre fatto così”, piccoli e grandi poteri.

C’è un obiettivo principale da perseguire prioritariamente, che ha una faccia economica e l’altra politica, che riguarda la rappresentanza, non il consenso elettorale, la rappresentanza, che è cosa molto seria: l’obiettivo è ridare reddito, un po’ di reddito spendibile per sostenere i consumi e la domanda interna, se è questo che fa ripartire anche la crescita e così redistribuisce lavoro e altro reddito; questa cosa serve anche a rimontare la sfiducia, la perdita di ruolo delle “classi medie”, serve a dire, alle persone e alle fasce sociali che si sono guadagnate davvero qualcosa, che sappiamo che lo hanno fatto e che le rappresentiamo.

Ha a che fare con questo anche la questione della rivalutazione delle pensioni, tra le altre: con la soluzione contenuta nel decreto noi scriviamo che non pensiamo sia giusto avere un meccanismo di rivalutazione delle pensioni, lo scriviamo nel meccanismo prima ancora che nelle percentuali, comunichiamo il messaggio che consideriamo la platea dei pensionati come un insieme di persone che hanno più di quel che si meritano, che la distanza tra il valore delle pensioni in essere e quelle future si colma abbassando quelle in essere.

Vorrei che considerassimo con attenzione un paio di cose: i pensionati quando hanno un po’ di reddito lo spendono tutto, oggi, perché quel che non usano per loro stessi lo usano nella loro funzione di ammortizzatore sociale familiare; chi sta tra 1500 e 3000 euro lordi, cioè tra poco più di 1200 a poco più di 2100 netti, è un pensionato che ha lavorato e versato contributi veri tutta la vita, perché le pensioni “assistite”, se le vogliamo chiamare così, stanno sotto; un po’ meno di cinque milioni di pensionati, prevalentemente, di gran lunga, nel Fondo Pensioni Lavoratori Dipendenti che ha conservato il suo equilibrio nel tempo, ed anzi ha dato risorse per altri, persone che hanno praticato la fedeltà fiscale tutta la vita, da lavoratori e da pensionati. Per altro, i pensionati sono del tutto esclusi dagli interventi di alleggerimento fiscale, previsti per i lavoratori. La penalizzazione è mediamente di 615 euro nel triennio, quella che hanno già subito nel biennio 2013-2014, da 1000 euro in su. Tutti insieme, più di otto miliardi e mezzo in due anni.

Il meccanismo va rivisto, riportato a scaglioni “orizzontali”, va riportato a quel che ci aveva detto il Ministro in commissione, dieci giorni fa, che è ciò che la Finanziaria del 2012 aveva previsto. Se si fa questa cosa, poi si può anche lavorare un po’ sulle percentuali.

E invece decidiamo di chiedere ai pensionati benestanti, quelli davvero benestanti, di contribuire all’emergenza e alla giustizia redistributiva, anche tra generazioni: qui non dobbiamo essere timidi, non sopra i 150mila, sopra i 90. Se ne ricavano dodici milioni, con l’ipotesi del Governo, un’altra trentina, a palmi, se si parte da 90 mila: pochi, se con destinazione indistinta, ma importanti se finalizzati a qualcosa di concreto e simbolico insieme: si è detto “partite iva”, ad esempio, la cifra sarebbe sufficiente e avrebbe l’operazione avrebbe un valore più alto della cifra stessa: al Senato stanno ipotizzando altro, discutiamone.

C’è un’altra questione che vale di più di quanto costa: la flessibilità dei requisiti per il pensionamento. Non “pezzetti e bocconi”, di salvaguardia in salvaguardia, ma la correzione della stortura più incomprensibile della manovra sulle pensioni del 2011. Ma per fare quel che serve nell’ambito previdenziale, compreso rendere decenti le prospettive pensonistiche per i nuovi lavoratori, va risolto nella nostra discussione un punto, in questa fase e per l’avvenire: la presa di coscienza collettiva del fatto che il risparmio derivante da manovra fornero sarà molto superiore a quello che è stato, colpevolmente, sottostimato, mentre ogni correttivo viene sovrastimato nei costi.

Oggi, in questo provvedimento, come si manovra all’interno dei “saldi invariati”? Una ipotesi: alle imprese si dia altro: fondo di garanzia, pagamento reale dei crediti, sbloccando gli intoppi che ci sono in giro, qualche vera semplificazione…. I puri traferimenti non producoono effetti apprezzabili pari a risorse usate per sostenere la domanda.

Qualcosa di più dalla tassazione delle rendite? Strumenti più forti di tracciabilità per il contrasto all’evasione fiscale? Se siamo in tempo, proviamo a lavorarci ancora.

* On. Anna Giacobbe