Albenga, Sgarbi: “Siamo entrati in un’epoca di apocalisse e di distruzione”

di Fabrizio Pinna – Vittorio Sgarbi non ha fatto il “tutto esaurito” al cinema/teatro Ambra di Albenga ma il suo spettacolo, “Sgarbi l’altro”, ieri sera lo avrebbe certamente meritato: due ore trascorse gradevoli d’un fiato, senza troppe sbavature, tra ironia, sarcasmo, dissacrazione e provocazione, come è da sempre nello stile e nel carattere del “personaggio”.

Con un lungo monologo ad intreccio molto colto in cui arte, poesia, cronaca e polemica si inseguono, si intersecano e talvolta si sovrappongono in maniera un po’ forzata, non è certo semplice fermare l’attenzione in platea. Ma Sgarbi sa bene come tenere la scena e non gli mancano né il mestiere né le antenne per captare gli umori del pubblico in sala e capire quando spingere l’affondo, sfruttando indifferentemente i registri alti o bassi, per strappare la risata e l’applauso.

Anche in uno spettacolo “a tesi”, in fondo molto cupo, come quello recitato ieri in occasione della data dell’11 settembre: “Siamo entrati in un epoca di apocalisse, di distruzione e non di costruzione”, “il mondo vive in una tensione continua”, “si prefigura la fine della cultura del dialogo”, con i fanatismi che finiscono per cozzare l’uno contro l’altro…

Ma non siamo, con lo spettacolo, dentro il paradigma dello “scontro di civiltà” molto in voga qualche anno fa (non a caso Sgarbi ha letto anche l’emblematica  poesia di Kavafis, Aspettando i barbari: “[…] È che è scesa la notte e i Barbari non arrivano. / E della gente è venuta dalle frontiere dicendo / che non ci sono affatto Barbari… / E ora, che sarà di noi senza Barbari? / Loro erano comunque una soluzione”, 1908). È un cambiamento di sensibilità e di orizzonti culturali quello che evoca nella sua “visione del mondo”, preannunciato già dall’arte, dice, uno dei fili conduttori dello spettacolo. Una nuova sensibilità illustrata da Sgarbi anche attraverso testi e richiami culturali topici meno scontati e noti, dal breve accenno e omaggio a Neri Pozza (1912-1988) che nel 1941 editò “Apocalisse” con 20 litografie di De Chirico, passando per la lettura della poesia dal titolo-emblema Duplice omicidio di un ragazzo in guanti giallo limone, opera di un autore americano dell’epoca della “Jazz Poetry” e della Beat Generation, Kenneth Patchen (1911-1972).

Sullo schermo alle spalle di Sgarbi, tra una lettura e l’altra, destinati a comporre come tessere parte del “puzzle apocalittico”, scorrono i filmati dei grandi eventi che hanno segnato le cronache mondiali, passando con una certa “poetica” disinvoltura dal terremoto del settembre 1997 che fece crollare parte della basilica di San Francesco con gli affreschi di Giotto e Cimabue causando la morte di quattro persone, alla distruzione delle millenarie statue del Buddha a Bamiyan da parte dei Talebani nel marzo 2001 e – naturalmente – l’attentato alle torri gemelle l’11 settembre dello stesso anno.

Ma poi si ritorna ai tempi più recenti e alla realtà italiana, dove la mancanza di cultura, la perdita del rispetto e del valore delle cose (“che hanno in loro stesse una loro ‘poesia'”) si diffonde ugualmente soprattutto tra politici e amministratori di quello che dovrebbe essere il comune patrimonio, sostiene ricordando la sua battaglia contro il sindaco di Milano Letizia Moratti per l’abbattimento della palazzina Alfa Romeo al Portello nel 2007, fino al recente caso (2009) della palazzina liberty fatta demolire a Morazzone (Varese), “testimonianza di barbarie” dei tempi. Segni di decadenza, insomma: “siamo passati dalle Cocotte alle escort” dice con una battuta Sgarbi, dopo aver letto – per rievocare le atmosfere liberty del primo Novecento – la poesia di Guido Gozzano con sottofondo della celebre Gymnopédie n° 1 di Erik Satie. E cita la massima di Benedetto Croce “il vero politico onesto è il politico capace”, ma oggi…

Cultura, politica, potere. Le contraddizioni e i conflitti si giocano in fondo anche entro queste sfere nello spettacolo in cui Sgarbi mette in scena se stesso, i suoi gusti estetici, le sue passioni, le sue idee: la sua Weltanschauung, in una parola, che deve non poco alle sue affinità culturali – eredità in lui viva da sempre  – con l’estetismo “fin de siècle”, dalle pose, nella vita pubblica e privata, di impronta “dannunziana” alla non lontana riproposizione del “partito della bellezza”; si ripresentano con lui, insomma, i rapporti complessi tra estetica, etica, politica, economia declinati spesso nel segno del primato dell’arte e del bello. Non a caso il sipario si chiude con la lettura degli atti del processo subito dal Veronese da parte dell’Inquisizione nel 1573 per aver dipinto una versione “eterodossa” dell’Ultima Cena (“Nui pittori si pigliamo licenza, che si pigliano i poeti e i matti”, si difese…), poi diventato Cena a casa di Levi: esempio anche questo emblematico della libertà dell’arte e dell’artista opposte alle angustie cieche della politica, fatta talvolta di astuti o sciocchi compromessi. Anche… all’italiana.

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