Musica, rumore, silenzio

di Alfredo Sgarlato – Una delle tante possibili storie della musica moderna potrebbe essere quella dell’avvicinamento al rumore. Può sembrare impossibile all’ascoltatore di oggi ma per l’uomo del sette/ottocento la musica di Mozart e Beethoven, persino di Verdi e Puccini, alle prime apparizioni era parsa eccessivamente dissonante. La gamma di armonie che erano considerate ostiche all’orecchio umano si è col tempo ridotta: l’ultimo accordo ad essere liberato è stato l’accordo di quarta, il meno naturale, che veniva definito “diabolus musicae” e il compositore russo Skrjabin ribattezzò “accordo mistico”. Col ‘900 si arriva all’estrema dissonanza della dodecafonia, o a musicisti come Edgar Varese, che inseriscono suoni e rumori presi dall’ambiente come elementi strutturali delle proprie composizioni, fino ad arrivare al futurista Luigi Russolo che ipotizza una musica composta di soli rumori e progetta un “intonarumori” per eseguirla. Anche nel jazz, termine che tra le tante possibili traduzioni ha quella di “casino” (in ambedue i significati), ché tale appariva agli ascoltatori bianchi, si utilizzavano sordine per gli strumenti a fiato in modo da farne i somigliare i suoni a versi animaleschi.

Col rock il rapporto fra musica e rumore giunge al culmine: gli amplificatori che distorcono le chitarre diventano marchio di fabbrica, con Hendrix per primo a inserire fischi e sibili come componente dell’improvvisazione. Così avviene anche coi primi sintetizzatori: Brian Eno dei Roxy Music con l’ausilio dell’elettronica inserisce rumori fantascientifici e filtra gli strumenti dei compagni per renderli irriconoscibili. Negli anni ’80 il sogno di Russolo si compie: nasce un filone del rock detto “industriale”, con gruppi come Einsturzende Neubauten, SPK, Test Department che suonano strumenti costruiti con rottami (va detto che l’inventore di questa pratica è un genio folle e isolato che viveva nel deserto americano, Harry Partch). Vi sono poi gruppi rock più canonici come Sonic Youth, Jesus and Mary Chain, Pussy Galore, My Bloody Valentine, in cui la distorsione degli strumenti, le dissonanze armoniche e, per un paio di loro, un’ostentata imperizia tecnica, diventano vera e propria filosofia del suono.

Anche l’avanzamento dell’elettronica permette di lavorare creativamente sul rumore: Graeme Revell degli SPK incide “The insect musicians”, in cui rielabora al computer i suoni prodotti dagli insetti, mentre “A chance to cut is a chance to cure” degli americani Matmos è composto interamente rielaborando suoni registrati in sala operatoria o durante esperimenti (vi consiglio di cercare il DVD live di Bjork con i Matmos che creano in diretta i suoni del concerto: uno spettacolo nello spettacolo). Lo stesso Eno incide dischi con tecniche simili. Ma se la musica lungo la sua storia ha inseguito il rumore, esiste una musica che tende al silenzio? Certamente. Molti fanno partire questa tendenza con le composizioni sobrie e minimali di Erik Satie, sicuramente si può considerare padre spirituale John Cage, musicista studioso di filosofie orientali ( e di funghi), che era felice quando un suo concerto era interrotto da un tuono o da un colpo di tosse perché lo considerava la vittoria del caso sulla necessità e della natura sull’uomo. Cage esegue dal vive e “incide” su disco un brano intitolato 4’33” che consiste per l’appunto in 4 minuti e 33 secondi di silenzio.

Esiste anche una compilation che raccoglie tutte o quasi le versioni di questo brano incise (?!) da altri musicisti, tra cui anche, non ci crederete, i Sonic Youth. Nel campo del rock il gruppo Talk Talk, nato come gruppo pop elettronico e passato nel corso della carriera ad una musica sempre più concettuale, inserisce nei propri brani lunghe pause e alternanze tra passaggi molto quieti ed esplosioni sonore, che influenzano poi negli anni ’90 un intero filone detto post rock, con gruppi come Slint, Gastr del sol, Joan of Arc, che fanno della ricerca del silenzio un tratto stilistico (sebbene, paradossalmente, siano molto influenzati da Sonic Youth e My Bloody Valentine). Esiste poi un filone di musica elettronica, detto “isolazionista”, rappresentato da musicisti come Bernard Gunther, Rioji Ikeda, Alan Lamb (il cui “Night Passages” è stato inciso registrando il suono dei cavi telefonici mossi dal vento nel deserto australiano) la cui musica, estremamente minimale e registrata volutamente a volume basso, va ascoltata, dicono i fans, di notte, in cuffia e con la massima attenzione per poterne cogliere le variazioni.

Un esperienza di autoanalisi ancora più che musicale, sempre secondo i cultori. Immagino già la domanda: che senso ha tutto ciò? Quello che ha qualsiasi forma d’arte: esprimere l’inconscio di un artista. Il fatto che anche l’artista più di nicchia abbia i suoi sostenitori dimostra come l’inconscio sia collettivo.

* il trend dei desideri: la rubrica Corsara di Alfredo Sgarlato