Le ombre dei registi dimenticati

di Alfredo Sgarlato – Quando mio fratello studiava al DAMS mi chiese di aiutarlo a scegliere dieci film fondamentali da presentare all’esame di storia del cinema. Non fu facile, anche perché il prof era omofobo e quindi niente Pasolini, niente Fassbinder, Sirk, Almodovar, Losey. Io non posso credere che ci si possa laureare in storia del cinema senza aver visto “Il servo” di Joseph Losey. Senza aver visto il meraviglioso finale de “Il servo”. Che non vi racconto e non potrei, perché come molti dei finali più belli della settima arte, da “I 400 colpi” di Truffaut a “Nostalgia” di Tarkovskij a “L’amico della mia amica di Rohmer è puramente visivo, perché il cinema è arte della visione, non dimenticatelo mai.

Forse deriva da questo il fatto che oggi la critica cinematografica sia molto attenta a riscoprire piccoli maestri o presunti tali, e dimentichi a grandi maestri. Losey, per esempio. O Bergman: in passato era considerato il prototipo del regista artista, oggi chi ne parla più? O Ken Russel, il regista scandalo degli anni ’70, l’autore di “Tommy” e de “I diavoli”: ma sarà ancora vivo? Che fine ha fatto? Questi pensieri mi vengono in mente leggendo un raro ricordo di un altro grande dimenticato: Krzisztof Kieslowski. Finché è stato in vita (è morto il 13 marzo del 1996, lo stesso giorno di Lucio Fulci, a soli 55 anni) è stato considerato il regista da non perdere, o da odiare, se siete fra quelli che trovano noiosi quei film dove dopo dieci minuti i morti non sono ancora di più dei colpi sparati.

Negli anni ’80, il vero buco nero della cinematografia mondiale, Kieslowski, ateo affascinato dalla spiritualità, concepì l’opera di maggior respiro realizzata in quel periodo: “Il Decalogo”. Una serie di dieci brevi film (meno di un’ora l’uno: la scusa della noia non regge) ognuno ispirato da un comandamento. A volte il legame è un po’ tortuoso, ma l’aspetto più interessante è che, escluso l’agghiacciante “5” (ogni film è girato con stile e fotografia diversi) ogni episodio, per quanto profondamente morale, mostra una situazione in cui infrangere il comandamento può essere giusto o inevitabile. In genere “5” è considerato il più bello, ma i veri capolavori della serie sono “4” e “6”, i più scabrosi. Da notare che di “6” Kieslowski ha girato anche una versione più lunga con finale diverso intitolato “Breve film sull’amore” che in Italia è stata intitolata “Non desiderare la donna d’altri”…

Prima del “Decalogo” Kieslowski ha girato alcuni film in Polonia, da noi visti solo di notte su RAI3, tra cui lo straordinario e copiatissimo “Destino cieco”, in cui un ragazzo, in seguito ad un evento casuale, prendere o perdere un treno (vi ricorda qualcosa?), vivrà tre vite diverse: uomo di regime, rivoluzionario, scienziato disinteressato alla politica. Dopo il “Decalogo” Kieslowski si trasferisce in Francia dove gira “La doppia vita di Veronica” meno riuscito, in cui Nanni Moretti doveva essere il protagonista maschile ma era già impegnato, e una trilogia, “Blu”, “Bianco” e “Rosso”, dove, di nuovo (ma non nel terzo), i valori della modernità sono messi in crisi, anche se su un piano personale e non politico. Poco tempo dopo la sua morte capitava già di leggere uno di quegli pseudo critici che credono che Tarantino sia postmoderno (Tarantino è neoclassico; Hitchcock era postmoderno…) lamentarsi che i festival li vince “un Bellocchio dal nome che finisce in owski” , braccia rubate all’agricoltura. Poi l’oblio. Ma cosa aspettarsi se su un quotidiano nazionale (“Libero”) il critico recensisce un film di Takashi Miike credendo di parlare di Takeshi Kitano? Lo so bene che, come direbbe un politico consumato, “i problemi sono ben altri…”Ma Dio e il diavolo si nascondono nei dettagli. E anche la decadenza.

* il trend dei desideri: la rubrica Corsara di Alfredo Sgarlato