Colazione con Audrey

di Alfredo Sgarlato – Nei primi anni ’80 esplosero le TV private, che trasmettevano, diversamente dalla RAI, a tutte le ore del giorno. Per i ragazzi che non avevano voglia di studiare o di giocare a pallone divenne di culto la serie di film “Pomeriggio con sentimento”, che rilanciò i “musicarelli” (film italiani anni ’60 interpretati da cantanti), ma soprattutto impose il culto di Audrey Hepburn e soprattutto del film “Colazione da Tiffany”. Questo film usciva cinquanta anni fa ed è stato ridistribuito in poche sale in edizione restaurata, facendo il record relativo di incassi.

Quest’opera, caposaldo del romanticismo, venne tratta da un romanzo di Truman Capote, molto più cinico del film: su carta la protagonista Holly è dichiaratamente una escort, il suo spasimante è un giornalista ben disposto alla prostituzione intellettuale e forse bisex e non c’è lieto fine. Capote voleva come interprete la sua amica Marylin Monroe, che trovò dannoso per l’immagine interpretare una prostituta, e anche la Hepburn accettò il ruolo dopo che la storia venne molto edulcorata, con gran scorno di Capote.

I registi incaricati cambiarono più volte fino alla scelta definitiva di Blake Edwards, che ebbe con questo film la propria consacrazione e quindi, dopo aver girato la serie della Pantera Rosa e il capolavoro assoluto “Hollywood Party”, divenne il re della commedia. A cosa si deve il mito intramontabile del film? Senz’altro alla figura di Audrey Hepburn, insieme a Brigitte Bardot il prototipo di una donna “moderna” padrona del proprio destino (grazie anche alla sua immagine filiforme, lontana da quelle tradizionali da madre o amante che impazzavano all’epoca), ma che nonostante tutto alla fine si innamora davvero regalandoci un finale rassicurante, perché rassicurare era il compito sociale del cinema classico hollywoodiano. Non sempre riuscendo, perché i capolavori di Hitchcock, Mankiewicz, Sirk, erano tutt’altro che rassicuranti…

Fondamentale è poi l’apporto del film al costume: il tubino nero di Audrey, colore fino allora riservato alla cattive (le “dark ladies”), diventa capo di abbigliamento obbligatorio. Mentre per gli uomini il modello è l’abito di Mastroianni ne “La dolce vita”: quando vogliamo essere eleganti ci vestiamo come gli eroi di un film, perché, come disse Francois Truffaut: il cinema è più bello della vita.

* il trend dei desideri: la rubrica Corsara di Alfredo Sgarlato